mercoledì 4 gennaio 2017

Il sistema mediatico italiano alle prese con la piena maturazione della convergenza fra media e telecomunicazioni

Il sistema mediatico italiano alle prese con la piena maturazione della convergenza fra media e telecomunicazioni
di Bruno Somalvico
Circa quindici anni or sono in un saggio per il Mulino “La nuova Babele elettronica”, in piena bolla speculativa quando venivano meno tutte le attese riposte nei confronti della cosiddetta Network Society in un’epoca poi ribattezzata dell’Internet 1.0, insieme a Bino Olivi avevamo espresso grande scetticismo nei confronti delle alleanza fra Internet e la televisione in quanto il processo di convergenza fra editori radiotelevisivi e più in generale editori e fornitori di contenuti e gestori di servizi di telecomunicazione e nella fattispecie di fornitori di accesso a Internet, reso possibile dall’adozione di codici numerici (la cd rivoluzione digitale) non essendo ancora compiutamente arrivato a maturazione rendeva prematura una peraltro probabile futura convergenza dei mercati, ovvero dei prodotti e dei servizi veicolati nelle nuove reti e conseguentemente anche delle imprese. Prova ne furono i fallimenti di tante fusioni e di tanti “matrimoni del secolo” annunciati e sonoramente falliti, come quello in primis fra i principale forniotori di accesso a Internet America On Line e il colosso editoriale Time Warner. All’inizio di gennaio del 2000 American On Line annunciava la sua fusione con Time Warner per 164 miliardi di dollari. Nasceva la nuova compagnia AOL Time Warner con alla sua testa come Presidente Steve Case. L’accordo perfezionato l’11 gennaio dopo il primo assenso ottenuto dalla Federal Trade Commission, veniva poi sottomesso anche all’approvazione della FCC e della Commissione Europea. Una volta resa effettiva la fusione, ci si rese rapidamente conto che il matrimonio falliva proprio sul nascere: i profitti della divisione internet della società (AOL) diminuirono, come caddero anche i valori di mercato di altre aziende internet. Come risultato, il valore di AOL calò drasticamente. Giù nell’esercizio 2002 AOL Time Warner riportò una perdita di 99 miliardi di dollari- in quel tempo la più grande perdita mai registrata da una società. Per tutta risposta, il gruppo editoriale che era nato tredici anni prima a sua volta da una fusione tra il primo gruppo editoriale USA (Time Inc), e la Warner Communications, dopo che il primo aveva acquisito la seconda, a partire dal giugno 2003 riprese la denominazione iniziale del 1990, ossia quella antecedente la fusione con AOL, per l’appunto Time Warner, rimuovendo due anni dopo Steve Case dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione il 31 ottobre 2005. Dato l'insuccesso della fusione delle due compagnie mediatiche, il 28 maggio 2009 veniva infine annunciata la scissione di AOL da Time Warner e la costituzione di una nuova public company denominata AOL, Inc., oltre all'adozione del nuovo marchio Aol. La nuova compagnia diventa operativa il 10 dicembre 2009, data dell'apertura dei negoziati presso il NYSE col simbolo AOL, per poi essere acquistata sei anni dopo infine Il 12 maggio 2015 AOL da Verizon per 4,4 miliardi di dollari. Il vecchio mondo dei broadcaster, ma anche delle prime pay tv tirò allora un sospiro di sollievo. Certo era venuta meno la centralità della tv generalista e più in generale quella degli strumenti di comunicazione di massa e l’arrivo di nuove piattaforme aveva cancellato le vecchie rendite derivanti da posizioni monopoliste o comunque oligopolistiche, gli ascolti delle vecchie tv generaliste già aggrediti da pay tv e canali tematici, venivano ulteriormente aggrediti dalle nuove piattaforme a pagamento, le uniche che vedevano crescere sensibilmente i propri fatturati trainati dalle offerte premium di film e di eventi sportivi in diretta ma gli editori e i fornitori di contenuti non sarebbero stati rapidamente assorbiti dagli attori di quella che allora veniva chiamata la Nuova Economia.
A quasi tre lustri di distanza le cose sono finalmente cambiate. Si è completata la transizione da un lato dell’universo radiotelevisivo e delle sue diverse piattaforme tradizionali (radiodiffusione terrestre e via satellite, ridistribuzione via cavo e su reti a micro onde) dagli standard di trasmissione analogici a quelli numerici e con il passaggio al tutto digitale anche sulla piattaforma terrestre i nuovi editori televisivi di canali in chiaro finanziati dalla pubblicità possono raggiungere più facilmente l’insieme della popolazione e quindi come tale competere ad armi pari con le televisioni generaliste. Ma soprattutto lo sviluppo di nuove reti a banda larga e ultra larga sia fisse via cavo in fibra ottica sia mobili destinati a nuovi terminali intelligenti (in primis smartphone e tablet) hanno finalmente reso possibile la fruizione dei segnali televisivi via Internet, non solo attraverso piattaforme come quelle IPTV costruite su architetture proprietarie simili a quelle veicolate via satellite e sulle vecchie reti via cavo, ma anche su nuove piattaforme organizzate da aggregatori di contenuti veicolati come per i primi siti che fornivano edizioni online dei quotidiani della carta stampata, “al di sopra della rete” beneficiando altresì di nuove forme di aggregazione, organizzazione, proposta e condivisione di contenuti suggeriti agli utenti in base non solo a motori di ricerca, ma soprattutto ad algoritmi che beneficiando di un’immensa mole di dati raccolti attraverso i cosiddetti social media sui comportamenti in rete degli utenti, sembrano assumere un ruolo centrale nelle diete mediatiche dei consumatori rendendo meno essenziali rilevazioni meramente quantitative come quelle tradizionalmente effettuate dall’Auditel. La Nuova Economia della Rete anziché consolidare un tessuto di piccole e medie imprese è andata costruendosi attorno ai cosiddetti GAFA, ossia nuovi monopoli o comunque oligopoli nel campo dei motori di ricerca, dei social network, dei fornitori di nuove piattaforme di vendita di contenuti e servizi e-commerce mentre anche in Europa con la liberalizzazione della telefonia siamo passati da sistemi monopolistici a sistemi oligopolistici destinati come in altri mercati come quello dell’aviazione civile a conoscere ulteriori fenomeni di concentrazione. Sul segmento dell’offerta free le televisioni lineari competono non solo con i consumi veicolati attraverso i canali di YouTube e i social network che, come nel caso di Facebook e Twitter non condividono solo video preregistrati ma hanno iniziato a diffondere in videostreaming eventi televisivi in diretta. Sul segmento pay le piattaforme multicanale veicolate dagli editori di canali premium tradizionali come quelli di HBO negli Stati Uniti, e gruppi come Sky e Canal Plus in Europa dopo aver dovuto contrastare quelle degli operatori via cavo e le incursioni nel tempo di vari operatori telefonici e in particolare di filiali di ex incumbent come in primis Telefonica, Orange, ma anche Deutsche Telekom e Telecom Italia, da alcuni anni devono fare i conti con nuove piattaforme ibride SVoD (video su richiesta a pagamento) veicolate al di sopra della rete Over the Top (OTT) che forniscono non solo servizi lineari da fruire come gli eventi sportivi in diretta, ossia in tempo reale, ma anche cataloghi di contenuti destinati alla fruizione su richiesta in qualsiasi momento (in primis Netflix e Amazon Prime Video).
In questo scenario vanno viste le recenti fusioni, acquisizioni, scalate, che hanno interessato anche l’Italia e soprattutto vanno ripensate le normative antitrust disegnate nel cosiddetto Sistema Integrato delle Comunicazioni approvato nell’ambito della Legge Gasparri. Come ben evidenziato oggi da Andrea Biondi su Il Sole 24 ore uno degli aspetti del mercato italiano della pay tv è l'assenza di un'integrazione strutturale fra le offerte di tv a pagamento e le offerte di telecomunicazione (voce, fissa e mobile, connessione Internet). Dopo l'esperienza pionieristica di Fastweb (chiusasi nel 2012, con poco meno di 200 mila abbonati) tale integrazione è stata praticata solo a livello di iniziative di co-marketing e cioè di collaborazione commerciale fra gli operatori Solo ora con Tim Vision, che rappresenta un'esperienza consolidata, partita peraltro anche nella produzione di contenuti, qualcosa si sta muovendo. Sul versante dell'offerta c'è da tenere presente anche il debutto di Vodafone Tv. Nel frattempo su molti mercati questa integrazione è divenuta strutturale ed è andata rafforzandosi In Usa, Uk e Spagna ií 100% degli abbonati a servizi di pay tv sono abbonati di operatori che praticano il cosiddetto triple-play o quad-play (offerte integrate). Negli Stati Uniti il processo di integrazione fra mercato della pay tv e mercato delle Tlc ha ora avuto il suo acme con il takeover di AT&T su Time Warner. In Gran Bretagna l'ingresso di BT nella pay tv è stato la naturale risposta all'ingresso di Sky nel mercato delle Tic. In Spagna, dopo l'acquisizione da parte di Telefonica di Digital + e l'acquisizione di Ono da parte di Vodafone, l'intero mercato della pay tv è ora in mano a operatori di telecomunicazione. ll processo è avanzato anche in Francia e Germania. Prima o poi, in un modo nell'altro – conclude Biondi - anche la realtà italiana si dovrà adeguare. Non c'è modo migliore per le telco di competere sul mercato della banda larga se non con i servizi video televisivi, integrati alle stesse offerte di voce e connessione. L'integrazione impatta positivamente sul business: incrementa i ricavi medi per utente (l'Arpu), riduce i costi di acquisizione degli utenti e soprattutto riduce il tasso di disdetta degli abbonamenti La customer base risulta più stabile perché fruisce di servizi integrati a valore aggiunto. I fornitori di contenuto dunque a cominciare dagli editori televisivi, ossia i tradizionali broadcaster e quelli dalle pay tv, ma anche di quotidiani e periodici di quella che si chiamava un tempo la carta stampata, non devono solo contrastare i nuovi aggregatori di contenuti al di sopra della rete ossia gli OTT, i social network che non si limitano alla condivisione di video ma tendono ormai a promuovere e diffondere eventi e programmi anche in diretta sulle proprie piattaforme, e le temibili piattaforme SVoD, operanti ormai su scala globale come Netflix e Amazone Prime Video, ma, seguendo l’esempio di Sky nel Regno Unito, ma anche di gruppi come Clarin in Argentina, lanciarsi nella telefonia mobile o comunque integrare strutturalmente i propri servizi con quelli dei fornitori di servizi di telecomunicazione e di accesso alla Rete. La stagione degli spacchettamenti e della separazioni verticali fra fornitori di contenuti e operatori di rete necessaria per governare la transizione dalla radiodiffusione analogica a quella digitale sulle reti terrestri era figlia di una convergenza allora solo parziale che diede vita alla telefonia mobile di terza generazione che integrava contenuti derivanti dai siti dinamici di Internet con i servizi di telefonia mobile ma impediva allora la piena convergenza fra tv e tlc. E’ bene che il legislatore oggi invece la recepisca e provveda a riformare le norme tenendo presente che nel mercato mondiale dei servizi integrati solo in pochi potranno competere con questi giganti. Piaccia o non piaccia ai nostalgici di un’idea di pluralismo fondata sul “piccolo è bello” o peggio ancora sulla difesa dell'italianità o di campioni nazionali.

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