martedì 15 gennaio 2008

Osservazioni critiche sul DDL Gentiloni

Osservazioni sul Disegno di legge Gentiloni e sulle proposte di Giancarlo Bosetti e Alessandro Ovi
contributo alla discussione di Bruno Somalvico
(Segretario Generale Associazione Infocivica - Gruppo di Amalfi)


Il DDL Gentiloni, le interviste e gli interventi più recenti anticipatori delle Guidelines per il futuro del servizio pubblico e le proposte contenute nel documento “per un nuovo servizio pubblico radiotelevisivo nell’era digitale” segnano una positiva inversione di tendenza nell’opinione pubblica in generale, e nella fattispecie in quella di centrosinistra, segno di una nuova consapevolezza dell’insostituibilità o - per riprendere i termini di un documento di Giancarlo Bosetti e Alessandro Ovi - dell’indispensabilità di un servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale.

Le ragioni del sistema misto.

Gli amici che hanno dato vita ad Infocivica sino a qualche tempo avevano la sensazione di trovarsi in una posizione quasi solitaria con pochi amici riuniti intorno all’UCSI (attorno al cattolico Emilio Rossi), all’Isimm (attorno al socialista Enrico Manca) e a pochi altri organismi, a combattere una posizione che pareva allora dominante e che considerava ineluttabile la privatizzazione della Rai e nel futuro il passaggio dal sistema misto che ha caratterizzato l’Europa negli ultimi decenni ad un sistema “tutto privato”, sia pure temperato dal rispetto di rigorosi vincoli antitrust e da regole a tutela del pluralismo simile a quello che gli Stati Uniti avevano promosso sin dagli anni Venti.

La nazionalizzazione della BBC.

Negli anni Venti il sistema “tutto privato” statunitense venne criticato da alcuni parlamentari inglesi riuniti in due Commissioni parlamentari di inchiesta sulla radiodiffusione- insediatesi nel 1923 (Commissione Sykes) e nel 1926 (Commissione Selsdon) - che preconizzarono allora la trasformazione della BBC da Company privata in Corporation pubblica finanziata esclusivamente dal canone pagato dai cittadini britannici e che avrebbe dovuto rinunciare alla pubblicità per garantirle la sua autonomia da qualsiasi pressioni provenienti da gruppi commerciali. Questo sistema è rimasto sostanzialmente inalterato e a partire dal 1 gennaio 2007 entra in vigore la nuova Royal Charter approvata dal Governo britannico che fissa missioni e confini del nuovo servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale oltre la Manica, e che rimarrà in vigore sino al 2016.

LA MISSIONE DI INFOCIVICA NELLA FASE ATTUALE.

Oggi dunque Infocivica si deve sentire meno sola e deve battersi perché anche in Italia il servizio pubblico trovi la propria via nazionale al “tutto digitale” e veda nella convergenza multimediale l’occasione non per aggravare ulteriormente la divisione fra i propri cittadini ma per realizzare una nuova coesione sociale, facendo del servizio pubblico la voce degli abbonati al canone e uno strumento per il dialogo con le istituzione e per la formazione e l’educazione civica.
Infocivica deve mantenere intatta la mission che ci ha spinti a fondarla ovvero quella che potremmo definire un’assoluta equidistanza rispetto agli schieramenti politici democratici di centrodestra e di centrosinistra, un confronto senza pregiudiziali fra cultura, principi e valori del mondo laico e del mondo cattolico, una funzione di arbitro e di moderatore assegnata ai giornalisti e agli operatori del servizio pubblico nell’informare i cittadini e nell’intervistare la classe dirigente, un’assoluta adesione al rinnovo della missione del servizio pubblico così come l’avevano intesa quei lord inglese oltre 80 anni fa.

Il fatto che oggi non ci sentiamo più così soli non deve affatto mutare il nostro atteggiamento di neutralità assoluta nei confronti del quadro politico, qualunque esso sia: nessun collateralismo ma assoluto spirito da civil servant nella profusione di energie tese alla realizzazione del progetto del canale Infocivica e dei servizi ad esso connessi così come li avevamo individuati ad Amalfi. Rimaniamo convinti che il canale Infocivica possa trovare il proprio spazio nella fase attuale di riconfigurazione editoriale dell’offerta del servizio pubblico nell’universo “tutto digitale” prossimo venturo e di fronte alle istanze e richieste di informazione e di formazione dei cittadini provenienti dall’Unione Europea e dagli Enti Locali, come ben evidenziato nel nostro Manifesto programmatico.

L’Appello di Infocivica vuole essere un invito alla classe dirigente di questo Paese a mettere al centro delle riforme non la mera questione del futuro della Rai, quanto di un importante architrave che deve accompagnare lo sviluppo della nuova società dell’informazione e della conoscenza, nell’epoca della globalizzazione ma anche della rinascita dei conflitti etnici, religiosi, e dei paventati scontri di civiltà che evidentemente richiedono un nuovo approccio alle problematiche legate alla soluzione della “questione nazionale”. Un architrave che va presieduto e governato in modo del tutto inedito rispetto all’articolazione tradizionale centro-periferia, direzione generale-sedi regionali, ma che probabilmente deve investire una molteplicità di imprese, di soggetti e di ambiti, in grado di soddisfare coerentemente alle nuove missioni che verranno individuate ed ai finanziamenti che verranno loro assegnati – le esigenze di una pluralità di organismi locali, regionali, nazionali ed europei.

Infocivica può favorire - in questa nuova Babele elettronica - la ricerca di alcuni punti di convergenza fra i diversi ambiti istituzionali nella definizione delle missioni, della Governance e del finanziamento delle attività che verranno realizzate da questa molteplicità di soggetti, ma che deve avere certamente nel riassetto della Rai la spinta iniziale, un autentico ruolo di apripista, come quello esercitato nel Regno Unito dalla BBC. Sotto questo profilo Infocivica potrà esercitare anche una funzione di documentazione sulle migliori esperienze avviate in Europa in questa direzione e perché no? esercitare un’azione di sensibilizzazione e di lobbying nei confronti dei decisori politici, a favore del consolidamento del dialogo e dell’informazione fra cittadini e istituzioni, e laddove necessario, alla stregua di un’associazione di tutela dei consumatori, non trascurare la denuncia nei confronti di qualsiasi attività che sia contraria alla missione di servizio pubblico o comunque nociva alle finalità da esso perseguite.

IL DDL GENTILONI. VIRTÙ E VIZI DEL NUOVO APPROCCIO AL SISTEMA ITALIANO DELLE COMUNICAZIONI.

Rispetto a quanto annunciato dal nuovo Governo, cerchiamo di indicare e salutare i punti di convergenza, senza peraltro sottacere i punti di dissenso e le zone grigie che meritano senza dubbio ulteriori approfondimenti anche in sede tecnica come quelli avviati ad esempio dall’Isimm con alcuni giuristi sul documento Petruccioli e che sono proseguiti in maniera assai convincente nel documento proposto dagli amici di Reset e di Tecnology Review. Partiamo dalla visione d’insieme contenuta nel DDL Gentiloni. Ci pare vi sia una maggiore consapevolezza dei vizi strutturali del sistema televisivo italiano, dal nanismo e dall’esiguità delle risorse che riesce complessivamente a raccogliere, del fatto che l’avvento di nuove piattaforme più del digitale terrestre lo renda sempre meno protetto e che occorra fare i conti con nuove dimensioni d’impresa in un mercato globale che rischia a termine di emarginare soggetti che operano unicamente in ambito nazionale.

Per evitare qualsiasi fraintendimento sgombriamo due equivoci che potrebbero sorgere da una lettura errata che vedrebbe in questa difesa del servizio pubblico una difesa dello status quo.

Primo equivoco da sgombrare. Non si tratta di mantenere l’attuale assetto della Rai mai riformato dal 1975 e di adattarlo sic et simpliciter al nuovo comparto multimediale.

Vanno semmai capite innanzitutto le ragioni che ne hanno pervertito nel tempo le ambizioni (ad esempio il mancato ruolo delle Regioni) e snaturato le finalità (i concetti di partecipazione e di accesso interpretati da un lato in senso di estensione della lottizzazione, dall’altro di conventio ad exludendum dei partiti dell’arco costituzionale), cercando poi di identificare quanto poi di quel gran progetto possa essere oggi – depurato da questi pervertimenti – essere ripreso, adattato al nuovo contesto caratterizzato non più tendenzialmente dalla dittatura dell’Auditel e degli ascolti, quanto dal primato della diretta e del tempo reale da un lato (per la tv post-generalista) al ritmo di una comunità precisa di riferimento (non solo la comunità nazionale, ma anche una comunità locale o un continente, un’area geografica, al limite la comunità – mondo), dall’altro (per i prodotti a utilità ripetuta e soprattutto per quelli tematici e di nicchia) caratterizzato da nuovi criteri di visibilità, promozione, ma anche classificazione e indicizzazione per scaricare a richiesta dalla Rete la tua dieta mediatica.

Si tratta di capire ad esempio quanto una Community in rete o una Telestreet possano entrare a far parte legittimamente del NUOVO TERRITORIO DEL SERVIZIO PUBBLICO MULTIMEDIALE ovvero di un’area composita e non monolitica in grado di declinare non più le classiche offerte radiotelevisive verticali veicolate attraverso palinsesti lineari, ma di presiedere in maniera oculata tutte le piattaforme o le potenzialità anche di interazione con i cittadini, qualunque essi siano, dovunque essi risiedano, ripensando profondamente il concetto di coesione sociale e soprattutto individuando NUOVE ZONE DI INTERVENTO PRIORITARIE quali ad esempio l’alfabetizzazione civica e l’integrazione delle popolazioni immigrate, e combattere contemporaneamente utilizzi perversi di questi nuovi strumenti di informazione e comunicazione per arricchire e non per restringere l’orizzonte dei cittadini (ad esempio oscurando emittenti antisemite o che spingono alla guerra fra civiltà ecc.).

Sotto questo profilo la presenza della BBC multimediale a cominciare dal proprio sito costituisce nuovamente un faro, un punto di partenza come lo sono stati John Reith e la radio britannica dagli anni Venti in poi. Invito dunque tutti a leggere il Libro Verde del Governo Costruire un Regno Unito digitale per capire quali sono le responsabilità della politica e di chi presiede la cosa pubblica nell’elaborazione di un programma di medio termine che investe il ruolo del servizio pubblico nella società dell’informazione


Secondo equivoco da sgombrare. Va ripensato il ruolo della Rai o se volete della nuova Rai Multimediale nella società dell’informazione nel senso che la sua auspicabile centralità non può significare monopolio assoluto dell’azienda nel presidio delle missioni e delle attività editoriali di servizio pubblico in questo scenario molto più composito.

L’esperienza britannica con Channel Four, quella duale fra polo federale (ARD) e polo nazionale (ZDF) in Germania, fra RTVE e Autonomicas in Spagna, l’esistenza stessa in Francia di un «settore pubblico» (ARTE, i due canali parlamentari dell’Assemblea Nazionale e del Senato della Repubblica, e i due canali internazionali partecipazione mista France 24 e la francofona TV5) distinto dal servizio pubblico France Télévision che non dispone nemmeno dell’integralità del canone, ripartito insieme ad altre società pubbliche (Radio France, INA, SFP, TDF), tutte queste realtà di fanno ritenere che in questo nuovo comparto la Rai non possa pretendere di mantenere una posizione di monopolio nel mercato del servizio pubblico, ma che al contrario vada favorita una situazione di sinergia ma anche di relativa competizione fra più soggetti pubblici o comunque giudicati mission oriented ovvero di pubblica utilità e privi di finalità commerciali profit oriented. E qui va appunto ripensato il ruolo dell’associazionismo, dei Comuni delle Province e delle Regioni, degli stessi Ministeri dell’area del Welfare (istruzione, ricerca e università, lavoro, difesa, interno, protezione civile, turismo e beni culturali), e infine l’apporto dell’Unione Europea ma anche di altri organismi internazionali e delle Nazioni Unite, non solo nella comunicazione istituzionale rivolta ai cittadini e nella loro informazione e istruzione civica, ma in un complesso e variegato campo di interventi di cui vediamo solo in nuce negli attuali siti-vetrina in rete tutte le potenzialità.

Una Rai al centro del servizio pubblico nella società dell’informazione, ma non in posizione di esclusiva, priva di rendite di posizione, in situazione di concorrenza con altri soggetti pubblici nell’assolvimento delle finalità di informazione, educazione e crescita culturale dei cittadini. Un nuovo e composito servizio pubblico che recuperi quello spirito di rivalità e differenziazione positiva che aveva avuto la prima Rete 2 nei confronti della Rete 1 nella seconda metà degli anni Settanta con Massimo Fichera e che moltiplichi in un contesto peraltro del tutto inedito come quello che abbiamo sopradescritto - esperienze come quella di Channel Four al servizio dell’intero sistema-Paese. Va detto che la stessa BBC oggi, nonostante questo indubbio primato a cominciare dal suo sito web, non pretende peraltro di essere l’unico soggetto che risponda a criteri di servizio pubblico nell’universo multimediale.

Terzo equivoco da sgombrare. Allo stesso modo in quest’unico caso simmetricamente, Mediaset non deve detenere una posizione di monopolio nel mercato pubblicitario né Murdoch in quello della televisione a pagamento.

Non dobbiamo insomma arrivare ad un confortevole trio-polio dove ognuno è monopolista nel proprio mercato di riferimento e tende a comprimere investimenti e risorse per beneficiare di comode rendite di posizioni. Semmai vanno incoraggiate aggregazioni fra editori della carta stampata, ma anche fra emittenti locali in nuove syndication in grado di affrontare onerosi investimenti per assicurarsi nuove quote di mercato a fronte di una riduzione delle reti nazionali generaliste e di misure tese a impedire la dittatura della piattaforma di Murdoch nella distribuzione delle reti tematiche.

Questo significa che le frequenze analogiche lasciate da Rete Quattro si associno a quelle del canale musicale dell’Espresso e a quelle de La Sette per dar vita ad un autentico secondo polo commerciale trasmesso sia in tecnologia analogica sia in tecnologia digitale sulle reti terrestri nell’ultima fase prima dello switch off e all’origine insieme ad altri di una seconda piattaforma satellitare complementare all’offerta digitale terrestre (come potrebbe esserlo Freesat promossa da ITV e da altri soggetti nel Regno Unito). Una situazione diversa, ma con uno scenario per quanto riguarda il mercato pubblicitario per certi versi simile a quanto avvenuto nell’ultima fase prima dello switch off in Spagna e che comunque favorirebbe l’aumento delle tariffe pubblicitarie da un lato, la qualità dell’offerta e la riduzione dei costi di abbonamento all’offerta televisiva a pagamento per i consumatori, dall’altro.
Riassumendo tre sono i principi che a nostro avviso dovrebbero ispirare il legislatore:
· più mercato e più libertà e scelta per i consumatori,
· più servizio e più assistenza ai cittadini
· nessuna rendita di posizione

1. Uscire dalla visione simmetrica del duopolio.

Tuttavia ci pare sussista un vizio di fondo. Una visione simmetrica della regolamentazione della televisione pubblica e della televisione commerciale come se il loro destino fosse il medesimo e medesime fossero le finalità. Lo sviluppo del sistema misto in assenza di regole (a-regulation) con la formazione nei primi anni Novanta di un unico gruppo commerciale dominante, la nazionalizzazione nel 1986 della Terza Rete Rai che rinunciava definitivamente al concorso delle Regioni al rilancio della missione di servizio pubblico e delle sedi regionali all’ideazione e alla produzione dei programmi per controbilanciare l’acquisto di un terzo network commerciale Rete 4 da parte del gruppo Fininvest, accompagnato da una totale assenza di sviluppo di piattaforme ed offerte alternative via cavo e via satellite sino all’avvento del digitale, avevano disegnato un monstrum legislativo, la legge Mammì nel 1990, che si limitava a fotografare la situazione esistente, ovvero una sorta di pollaio televisivo pan-generalista, formato da tre reti pubbliche e tre reti private, simmetricamen te giustapposte le une accanto alle altre, come se andassero disciplinate sullo stesso piano, fatta eccezione per gli obblighi del contratto di servizio per la Rai ed i suoi vincoli alla raccolta pubblicitaria, disponendo del canone.

L’attenzione del legislatore e delle forze politiche, anziché concentrarsi sui nuovi obiettivi del servizio pubblico nel sistema misto, sullo sviluppo di nuovi canali tematici e nuovi servizi via cavo e via satellite (equiparati alle reti generaliste ignorando gli appelli generosi di Massimo Fichera e le lodevoli sperimentazioni compiute in Rai dal suo gruppo) si è rivolta prevalentemente a regolamentare il mercato pubblicitario dominato appunto dalle reti generaliste. L’avvio della pay tv nei primi anni Novanta, quando questo nuovo segmento aveva conosciuto significativi successi in Francia e nel Regno Unito passava inosservato: era consentita un’offerta di tre canali terrestri ma impedita l’offerta di un bouquet multicanale sulle nuove piattaforme.

Il deprecabile duopolio nel pollaio generalista si è tradotto in comportamenti del legislatore finalizzati esclusivamente a tutelarlo o a penalizzarlo a seconda dei casi e delle stagioni, senza preoccuparsi, almeno sino alla legge Maccanico approvata oltre due decenni dopo le prime sentenze della Corte Costituzionale, di distinguere – per farmi capire uno un’espressione forzata – il mercato del servizio pubblico dal mercato della televisione commerciale e dal nascente mercato della televisione a pagamento. La simmetria del duopolio insomma nascondeva l’asimmetria profonda delle finalità dei due principali gruppi televisivi italiani, concentrando la partita sul terreno della raccolta pubblicitaria e disincentivando la concessionaria di servizio pubblico ad esplorare nuove finalità pubbliche come se il canone risultasse qualche cosa residuale, destinato progressivamente ad esaurirsi.

Oggi assistiamo ad un’inversione di tendenza. Ma questo vizio di fondo non mi pare sia del tutto scomparso quando Gentiloni afferma di voler superare: “In primo luogo, il duopolio e la concentrazione degli ascolti e delle risorse nelle mani di due soggetti: una situazione che ha anche effetti politici di forte resistenza al cambiamento e all'Innovazione”. Ciò contiene verità sacrosante, ma il DDL Gentiloni mette sullo stesso piano ascolti e risorse raggiunti da soggetti pubblici e privati quasi a voler stabilire che la quota di ascolto della Rai rimasta attorno al 45% sia in qualche modo deplorevole, quando semmai risulta deplorevole il ritardo ventennale accusato nell’offerta multicanale che ha prodotto in Germania prima e oggi nel Regno Unito una frammentazione degli ascolti ma anche una riarticolazione dell’offerta e un più oculato presidio di queste nuove piattaforme e modalità di declinazione dell’offerta televisiva da parte dei servizi pubblici e contemporaneamente un rafforzamento della loro presenza sul territorio non solo in ambito regionale ma anche in ambito locale.

2. Rafforzare non amputare l’offerta di servizio pubblico.

Per questa ragione non ci piace la proposta del cosiddetto disarmo bilanciato: ovvero che una rete analogica sia di Rai sia di Mediaset venga smantellata entro 15 mesi dall’approvazione della nuova Legge cedendo o restituendo allo Stato entro il 2009 le frequenze analogiche di una delle loro tre reti[1].

Potremmo senza alcun dubbio accettare un disarmo sul mercato pubblicitario, ma crediamo che la Rai avrebbe bisogno fino al 2012 di una terza frequenza analogica per consolidare una nuova offerta televisiva educativa, informativa e culturale priva di pubblicità, come avvenuto quando al posto di TF1 il servizio pubblico francese ha potuto avviare la quinta rete educational (oggi France 5) in condominio con la rete culturale Arte. Mentre in Germania nascevano parallelamente una rete per bambini e una rete di documentari e di documentazione politico-parlamentare trasmesse sia in tecnologia analogica sia in digitale per poter raggiungere tutti gli abbonati al canone.

3. Incentivare l’aumento delle tariffe pubblicitarie, non il dimagrimento delle aziende

Per quanto riguarda il mercato pubblicitario non siamo ostili per principio alle misure previste ma crediamo che andranno introdotte gradualmente per assicurare un’autentica nuova dinamica del mercato, favorendo un aumento complessivo delle risorse, ovvero la fine di alcuni fenomeni deplorevoli come quelli praticati oggi come il dumping sulle tariffe delle inserzioni.

Il tetto del 45% stabilito sulla raccolta pubblicitaria (oggi Mediaset raccoglie il 66%, mentre TF1 il 50%, ITV il 49%, RTL 46% e Telecinco il 30%) e la diminuzione dell’affollamento pubblicitario (con le telepromozioni che verranno conteggiate nel tetto orario pubblicitario) devono a nostro parere non solo liberare 400-500 milioni di euro di pubblicità come prevedono le stime di Gentiloni. Di fronte a un minore affollamento, Mediaset, ma almeno in una fase di transizione anche la Rai, devono essere incentivate effettivamente ad applicare un aumento delle tariffe e recuperare in tal modo una parte dei volumi del loro fatturato pubblicitario.

4. La gestione delle frequenze. Estendere il sistema misto all’ambito regionale e locale.

Lo stesso giudizio - in parte positivo in parte condizionato dal vizio di fondo che abbiamo appena descritto - riguarda la nuova visione della transizione al digitale e della gestione delle frequenze contenuta nel DDL Gentiloni. Anche in questo caso riteniamo lodevole e serio lo sforzo teso al recuperare da parte dello stato e al riordino di un bene pubblico come quello rappresentato dalle frequenze che metterebbe fine ad un’anomalia tutta italiana. Ma non ci convincono i dispositivi antitrust individuati per il digitale terrestre a regime. Dopo lo switch off previsto nel dicembre 2012, la televisione digitale terrestre disporrà di dodici multiplex a frequenza singola SFN pari a 60 canali nazionali. Ogni operatore potrà disporre al massimo del 20% delle capacità trasmissive, pari a 12 canali. Rai e Mediaset secondo questo provvedimento simmetrico, dovranno cedere le capacità trasmissive eccedenti, a condizioni eque e trasparenti fissate dall’AGCOM.
Anche qui l’interrogativo di fondo rimane la simmetria fra servizio pubblico e operatori privati. Perché equiparare la Rai agli altri operatori?

5. La necessità di frequenze multiple MFN per irradiare in maniera più capillare il territorio.

Perché non consentire al servizio pubblico di disporre di frequenze digitali terrestri per assicurare una sua più capillare presenza in ambito non solo regionale, ma anche provinciale e locale. Perché assegnare i quattro multiplex a frequenza multipla MFN solo all’emittenza privata locale, quando negli altri grandi Paesi europei se non un intero multiplex per lo meno la metà della sua capacità viene assegnata in Francia per assicurare il distacco non solo in ambito regionale ma anche ad un secondo livello in ambito dipartimentale e locale di France 3, in Spagna per incrementare l’offerta delle televisioni pubbliche regionali autonome e persino quella delle televisioni pubbliche esistenti in ambito locale nelle grandi realtà delle nazioni catalana, basca, e galiziana, ma anche in Andalusia.

Non basta creare consorzi per favorire la razionalizzazione dell’emittenza regionale privata e la condivisione delle frequenze. Occorre una chiarificazione del ruolo delle Regioni e degli enti locali, ma soprattutto vanno definiti i nuovi confini multimediali della presenza del servizio pubblico in ambito regionale e locale che dovrebbe essere esplicitata nell’ambito del contratto regionale di servizio previsto dalla Legge Gasparri.

6. La separazione societaria fra operatore di rete e fornitore di contenuti.

Rispetto alla Legge 66 approvata nel 2001 che apriva la strada al trading delle frequenze, il legislatore, e comunque il documento Ovi Bosetti propone non solo la separazione delle funzioni ma anche la separazione proprietaria tra operatore di rete e fornitore di contenuti, portando a compimento il processo di smantellamento del vecchio modello del broadcaster verticalmente integrato. Ciò concentrerebbe il ruolo della Rai come fornitore di contenuti confermando nelle mani dell’azienda la responsabilità editoriale dei programmi trasmessi e dei nuovi servizi forniti e che dovrebbero essere fruibili attraverso tutte le piattaforme garantendo loro tendenzialmente un accesso universale.

Gentiloni vede con favore l'idea di creare una società delle reti di trasmissione televisiva dove confluiscano le infrastrutture dei vari operatori, ma dice no a qualunque operazione dirigistica e si dice perciò pronto a valutare progetti industriali che vengano dai player televisivi. In un articolo del disegno di legge sulla transizione al digitale vengono favorite le forme di aggregazione consortile per la gestione delle frequenze nella fase di transizione”. Il Ministro si è però detto “contrario a congegnare proposte che vengono dall'alto” e comunque ha sottolineato che per una valutazione dell'ipotesi più compiuta è necessario attendere qualcosa di concreto da parte degli operatori: “Bisogna valutare i progetti industriali - ha concluso - quando verranno avanti”.

Il documento di Ovi contiene proposte in linea con la filosofia delle Direttive sulle comunicazioni elettroniche dell’Unione Europea. Lo spacchettamento del modello del broadcaster verticalmente integrato non deve significare peraltro la fine del presidio pubblico degli impianti come avrebbe significato la vendita di Rai Way alla società americana qualora fosse stata consentita dal Governo nella legislatura precedente.Tornare al controllo pubblico delle frequenze significa distinguere le missioni pubbliche dell’operatore di rete dalle occasioni di business che possono essere sviluppate a partire dallo sfruttamento delle torri e degli impianti per nuove piattaforme.

7. Assicurare il principio della neutralità tecnologica e l’accesso del servizio pubblico su tutte le piattaforme

“Oltre ai temi classici del servizio pubblico, secondo il Ministro Gentiloni - occorre individuare temi nuovi, partendo dal chiarimento del rapporto tra free e pay, quindi sull'incrocio tra la gratuità e le platee generaliste, e il ruolo del servizio pubblico come uno dei fattori trainanti per orientare l'Innovazione tecnologica”. Il servizio pubblico radiotelevisivo dovrà essere tendenzialmente fruibile attraverso il maggior numero di modalità di trasmissione e di accesso che l’evoluzione tecnica metterà a disposizione dei cittadini. È bene impedire, infatti, che le trasformazioni legate alle nuove tecnologie digitali determinino disparità (socio-culturali o di altra natura) nelle reali possibilità di fruizione dei contenuti da parte dei cittadini.

Questo approccio è oggetto di ulteriori approfondimenti da parte di Giancarlo Bosetti e Alessandro Ovi: “Privilegiare il nucleo effettivo della funzione di servizio pubblico, rappresentato dalla fornitura di contenuti specifici, potrebbe suggerire la scelta di separare, non solo in termini di società ma anche in termini di proprietà, la società che gestisce torri e impianti di distribuzione dalla società che produce e/o offre i contenuti. Il modello dell’operatore verticalmente integrato (contenuti-rete) sembra essere sempre più divergente rispetto a quello del produttore di contenuti che diffonde i propri contenuti su tutte le piattaforme. È necessario dunque creare le condizioni in base alle quali le reti ed i contenuti siano separati dal punto di vista della proprietà e rispondano a logiche industriali diverse: la massimizzazione della capacità trasmissiva per gli operatori di rete e la diffusione multipiattaforma per i produttori di contenuti”.

Questa ipotesi rende di nuovo di attualità l’ipotesi di un’unica società proprietaria delle torri e degli impianti di trasmissione e - connessa ad essa - l’ipotesi di uno scorporo della rete di telefonia fissa dal gruppo Telecom Italia.

8. Un’unica società per la gestione degli impianti per tanti operatori?

Nel Regno Unito si distingue la proprietà degli impianti e dei siti sui quali sono edificati che rimane gelosamente in un unico soggetto posto sotto il controllo del Ministero delle Difesa (così come pubblica rimane la gestione e pianificazione delle frequenze) dallo sfruttamento della rete stessa da parte di più operatori in concorrenza tra di loro. Un’unica rete, tanti fornitori di servizi in concorrenza tra di loro a pari condizioni di accesso e sfruttamento degli impianti.

Il modello britannico era stato caldeggiato in Italia da Confindustria favorevole alla costruzione di un’unica rete UMTS e che avrebbe esercitato senza dubbio una razionalizzazione dei siti e un migliore impatto sul territorio a tutela della salute dei cittadini contro gli effetti nocivi derivanti dall’irradiazione di onde elettromagnetiche.

La Rai negli anni Ottanta aveva respinto il tentativo di cedere le proprie torri al gestore delle telecomunicazioni, memore degli interessi divergenti che ne sarebbero potuti derivare. Respingendo l’ipotesi di una cessione degli impianti Rai alla Stet caldeggiata allora dal Presidente dell’IRI e dallo stesso Alessandro Ovi, e consapevoli del ritardo tecnologico accumulato per le dissennate decisioni prese contro lo sviluppo delle reti via cavo nel decennio precedente, taluni si erano dichiarati favorevoli allo sviluppo di un Agenzia nazionale per lo Sviluppo delle Reti e delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (poi divenuto una proposta di legge nel 1992). Una tale Agenzia nazionale avrebbe dovuto pianificare lo sviluppo delle nuove piattaforme integrandolo con la nascita di una Società Italiana per la Telediffusione che avrebbe dovuto rimanere controllata in maggioranza dalla Rai ma che avrebbe potuto avere l’apporto di privati per lo sviluppo di nuove attività di profitto. In ogni caso non si prevedeva la vendita a privati di un asset strategico come gli impianti della Rai - e quindi a quella di Rai Way - a soggetti privati date le delicate missioni di servizio pubblico e gli obblighi di accesso universale che ne derivano.

A 15-20 anni di distanza sentiamo ancora davvero la mancanza di una cabina di regia pubblica: nello sviluppo del comparto multimediale. E’ mancata in questo caso, a contrario di quanto avvenuto negli anni Trenta, una sorta di Iri della multimedialità in grado di traghettare le punte tecnologiche del Paese in questo nuovo decisivo comparto. L’idea di una società unica rimane una prospettiva ancora percorribile? Che reale interesse vi può essere al possesso della rete quanto tanto più se essa è unica, dovrà assicurare l’accesso a terzi senza infrangere le rigorose regole comunitarie in materia di tutela della concorrenza e contemporaneamente garantire l’accesso di tutti i cittadini senza discriminazioni ad un’offerta di servizio a carattere universale con notevoli costi per assicurare l’illuminazione capillare dei segnali su di essa veicolati? Non siamo proprio sicuri che quest’idea sia davvero percorribile ma in ogni caso - laddove essa fosse esplorata nel concepire in particolare la configurazione delle reti digitali terrestri - dovrebbe naturalmente essere adattata all’interno del nuovo comparto multimediale e multipiattaforma.
In ogni caso va comunque detto che qualora fosse percorribile la strada di una grande società degli impianti, oltre a garantire l’accesso ad una pluralità di soggetti anche terzi in concorrenza fra loro senza discriminazioni e a condizioni eque e trasparenti, anche in questo caso essa dovrebbe favorire non solo un processo di razionalizzazione, ma come già detto per le frequenze, un’estensione del carattere misto del comparto multimediale.Vanno dunque garantiti i servizi veicolati sulle reti anche in ambito regionale e locale, introducendo obblighi di must carry e di copertura dei segnali a tutti i cittadini seguendo la medesima filosofia con la quale sono state costruite storicamente le reti radiofoniche e televisive sino a raggiungere tutto il territorio nazionale. Una filosofia improntata all’erogazione di un servizio con un costo infrastrutturale per l’intera collettività che non può auto-finanziarsi da solo sul mercato se non attraverso uno sviluppo selettivo e discriminatorio verso le aree non appetibili perché scarsamente generatrici di traffico e conseguentemente di flussi finanziari.



IL FUTURO ASSETTO DEL SERVIZIO PUBBLICO E IL SUO FINANZIAMENTO

Anche qui prima di esaminare le proposte di Gentiloni, occorre forse ricordare alcuni processi storici che hanno caratterizzato in Europa la riforma del servizio pubblico negli anni Sessanta e Settanta

La battaglia per uscire dal controllo diretto degli esecutivi

Fatta salva l’eccezione britannica di autentica autonomia del servizio pubblico sia dal governo e dai poteri pubblici sia dalle pressioni dei gruppi commerciali (che portano alla trasformazione della prima Company commerciale in Corporation Pubblica rinunciando al modello tutto privato statunitense) i soggetti pubblici continentali hanno conosciuto un difficile processo di autonomia dal potere degli esecutivi. Molto complessa sotto questo profilo risulterà anche la vicenda tedesca nel processo di affrancamento dal potere esercitato dalle Forze anglo-americane di occupazione nella Germania Federale del dopoguerra che impediscono la nascita di un servizio pubblico su scala nazionale sino agli anni Sessanta.

La Francia spezza solo nel 1974 il cordone ombelicale con il Ministero dell’Informazione dopo l’uscita di scena di De Gaulle con la chiusura dell’ORTF e la nascita di tre società pubbliche indipendenti e in forte concorrenza diretta tra di loro sugli ascolti almeno sino alla privatizzazione della prima nel 1986 e alla nascita di un sistema misto che spingerà ben più tardi alla fine degli anni Novanta a raccoglierle sotto un’unica Holding France Télévision. Con la nascita delle Authorities nel 1982 i presidenti saranno anch’essi nominati dai nuovi saggi a loro volta eletti a rotazione dalle alte cariche dello Stato francese.

La Spagna, pur spezzando con la fine del franchismo il legame diretto con l’esecutivo e con la casta militare, negli ultimi tre decenni non riesce ad affrancare completamente il servizio pubblico dall’esecutivo in quanto in assenza di canone esso dipende sempre di più dal ripiano dei debiti da parte di una filiale del ministero spagnolo delle finanze. In Germania si insediano nei Laender degli organismi compositi molto rappresentativi non solo dei partiti ma anche delle forze economiche sociali e religiose del Paese e in ogni caso la forte dimensione regionale al contrario della Francia gollista e dell’Italia democristiana, costituisce un antidoto allo strapotere di una singola area politica.

In Italia con la Legge di Riforma del 1975 si decide per il mantenimento dell’unitarietà del servizio pubblico all’interno di un’unica società ma in seno alla Rai si diversificano le reti e le testate, creando una diarchia fra esecutivo che continua a nominare il direttore generale democristiano e parlamento che acquista sovranità nell’attività di indirizzo e vigilanza nominando il consiglio di amministrazione dell’azienda a capo del quale si insedia un rappresentante laico del partito socialista. Ne deriva un quadro spartitorio non proprio esaltante nel medio termine quando l’assetto si rivela inefficiente nel far fronte alla concorrenza di un supergruppo televisivo commerciale, ma certamente incommensurabilmente meno “dittatoriale” del latifondo precedente.

Un esperimento che almeno nella sua prima fase con Andrea Barbato e Massimo Fichera, contribuisce ad allargare il pluralismo, apre a nuovi settori di sperimentazione e a nuove voci che non avevano diritto di espressione nelle gestioni precedenti, creando come in Francia una certa benefica concorrenza interna al monopolio soprattutto con le seconde reti meno ufficiali e più irriverenti nei confronti dei pubblici poteri. Si tratta certo di una stagione in Italia piuttosto breve che verrà normalizzata con la blindatura dei partiti nel controllo delle testate dopo l’ingresso nel 1986del partito comunista e la nazionalizzazione della terza rete nata a vocazione federale con forte progettualità su scala regionale.

Questa stagione finisce quando nasce la perfetta simmetria e inizia la dittatura dell’Auditel e il processo di omologazione fra rete pubbliche e emittenti commerciali. La Rai diventa uno strano ircocervo metà servizio e metà impresa, un’anatra zoppa che non può competere pienamente sul terreno commerciale né continuare ad esprimere le sue finalità di servizio pubblico perché esse cozzano con le logiche della competizione sugli ascolti. Vivrà praticamente due decenni senza ridefinire la propria fisionomia e governance.

Da questa situazione dovrà ripartire chi voglia autenticamente riformare il servizio pubblico a trent’anni dall’ultima legge di riforma.

Il nuovo governo sembra cosciente della necessità di rompere questo monstrum. L'ipotesi allo studio per una nuova configurazione della Rai si baserà secondo quanto annunciato da Gentiloni sulla separazione societaria tra attività finanziate dal canone e attività finanziate dalla pubblicità, “…confermando però l'unità aziendale. La Rai sarà concentrata su due reti generaliste di servizio pubblico finanziate dal canone e con poca pubblicità e programmi di elevata qualità e da una rete commerciale finanziata dalla pubblicità con programmi commerciali nella quale potrebbero entrare soggetti privati.

Come chiarisce lo stesso Gentiloni “L'ibrido tra le fonti di finanziamento della Rai, per metà rappresentate dal canone e per metà dalla pubblicità: un meccanismo che spinge all'omologazione con la Tv commerciale. Paletto essenziale, da questo punto di vista, è la separazione tra le attività finanziate dal canone e quelle sostenute dagli introiti pubblicitari”. Si prevede – chiarifica il Ministro nell’intervista rilasciata al supplemento economico del Corriere della Sera - un adeguamento del canone (oggi a meno di 100 euro a fronte dei 204 in Germania e Svezia e 180 in Gran Bretagna) pari al tasso di inflazione e un maggiore impegno contro l’evasione oltre a contributi ad hoc per garantire un ruolo di traino del servizio pubblico nell’agevolare la migrazione dall’analogico al digitale entro la nuova data prevista.

Per parte nostra abbiamo ricordato prima che, prima ancora dello switch off, sarà necessaria una riarticolazione dell’offerta di servizio pubblico non solo a favore di nuovi canali educativi e informativi di servizio pubblico, ma anche una più ricca e capillare presenza del servizio pubblico sul territorio riprendendo uno dei punti all’origine della Riforma di trent’anni or sono. Solo attraverso questo rafforzamento rivolto a tutti gli italiani e non solo alle famiglie digitali, riteniamo che sarà forse possibile procedere ad una progressiva riduzione della pubblicità e ad un incremento del canone e dei contributi pubblici che altrimenti rimarrà del tutto improponibile. Ci vuole insomma non solo in materia di raccolta pubblicitaria ma anche sul terreno dell’offerta una scossa importante che segni davvero un’inversione di tendenza a favore della qualità ma non a scapito degli ascolti e che sia effettivamente in grado di accompagnare tutte le famiglie verso l’universo digitale e il comparto multimediale sfruttando al massimo le tecnologie esistenti a cominciare dal Televideo e da tutti quegli strumenti che consentono già oggi all’utente di interagire con il medium televisivo.
1. Governance della nuova Rai

Secondo Gentiloni L'ultima, ma forse più grave anomalia del sistema italiano, è “il rapporto tra Tv pubblica e politica, che esiste ovunque ma in Italia è abnorme e non più sopportabile”. Tutti noi siamo d’accordo da anni sulla necessità di un allontanamento dei partiti dalla gestione dell’azienda per garantire la massima autonomia e indipendenza dal Governo e dalla politica. Per questa ragione è stata avanzata sin dai primi anni Novanta l’idea di una Fondazione o comunque di un organo in grado non solo di fungere da intercapedine fra l’indirizzo politico definito dal contratto di servizio e la gestione operativa, ma in qualche modo - aggiungeremmo - di diventare la voce degli abbonati e di verificare la congruità della gestione dell’azienda con gli obiettivi della nuova missione di servizio pubblico definiti nel contratto di servizio. Sotto questo profilo risulta particolarmente istruttivo quanto deciso dal Governo nel Regno Unito con l’insediamento a capo della BBC a partire dal 2007, in sostituzione del Board of Governors, di un BBC Trust ossia di un Consiglio dei Fiduciari investito di questi nuovi poteri di verifica e di controllo della gestione operativa del servizio pubblico d’Oltre Manica oggi alle prese con un lungo processo di decentramento delle proprie strutture.

2. Il dibattito sulle finalità e sui criteri di nomina della Fondazione

Innanzitutto vorremmo precisare la nostra proposta relativamente al ruolo di indirizzo che la politica attraverso il Parlamento dovrebbe ritrovare ed esplicitarsi nella discussione di documenti strategici simili al Green Paper all’origine della nuova Royal Charter della BBC in vigore per un decennio dal 1 gennaio prossimo. La funzione del nuovo Consiglio eviterebbe di sovrapporsi con quella del Direttore Generale e dei manager responsabili della gestione operativa dell’azienda, conferirebbe al Board una funzione di vigilanza e di riporto a scadenza semestrale dell’operato dell’azienda al Parlamento e all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ovvero ad una nuova Commissione Parlamentare di Indirizzo che dovrebbe vigilare come l’AGCOM sull’intero comparto delle comunicazioni elettroniche a distanza e sul rispetto del pluralismo dei contenuti veicolati qualunque sia la natura dell’editore e della piattaforma attraverso i quali sono veicolati.

Naturalmente molto delicata diventa a questo punto la definizione dei criteri secondo cui andranno individuati i componenti della Fondazione a capo della nuova Rai, organo in grado di rappresentare il paese e la cittadinanza nella sua totalità e che dovrà essere dotato delle sopra citate funzioni di indirizzo e controllo oltre che della nomina dei vertici. Concordiamo con il documento di Giancarlo Bosetti e Alessandro Ovi quando scrivono “Poiché la funzione di servizio pubblico deve essere protetta da ingerenze non pertinenti (politiche, economiche e di altro genere), la soluzione proposta è una Fondazione creata ad hoc, con organi costituiti da persone selezionate con criteri mediante i quali ognuna di esse possa rappresentare il Paese nella sua complessità”. Ma divergiamo quando si entra nello specifico relativo alle modalità di nomina dei componenti della Fondazione.

Sotto questo profilo francamente non ci convincono le due soluzioni sin qui proposte , sia quella “alla spagnola” che ho sentito sostenere da Gentiloni che prevede la modalità di nomina parlamentare a maggioranza bipartisan (oltre i 2/3 del Parlamento) sia quella presentata dal gruppo di Ovi con organi costituiti da persone selezionate pubblicamente attraverso una Commissione terza nominata dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – che ricordiamolo nei criteri di nomina dei suoi Commissari e del suo Presidente rimane diretta espressione della politica e dei partiti.

La prima soluzione non ci piace perché lascia sostanzialmente le cose inalterate o nella peggiore ipotesi riprende i vizi di esperienze precedenti costringendo le forze politiche bipolari a defatiganti compromessi senza peraltro incentivare i destinatari il cui mandato proprio perché figlio di compromessi può apparire annacquato o comunque soggetto a troppi vincoli (si pensi al clamoroso rifiuto di Paolo Mieli di accedere alla Presidenza del Consiglio di Amministrazione della Rai nella scorsa legislatura su indicazione dei Presidenti di Camera e Senato).

La seconda soluzione non appare convincente in quanto restituisce alla politica (sia pure in maniera camuffata e mediata da una Commissione) un potere enorme assegnando ad un unico organismo l’AGCOM - nominato peraltro dal Parlamento secondo criteri partitocratici simili a quelli previsti dalla Gasparri per la nomina dell’attuale CdA Rai - un compito specifico di enorme e delicatissima portata. L’AGCOM – mediante la nomina dei componenti della Fondazione poi formalizzata dal Ministro delle Comunicazioni – dovrebbe in effetti sovrintendere alla vigilanza sull’operato del servizio pubblico, quando invece essa è chiamato istituzionalmente e regolare l’intero sistema delle comunicazioni e dovrebbe semmai misurare l’impatto di mercato dell’operato del servizio pubblico.

Va ricordato che il Governo britannico ha deciso di non seguire le raccomandazioni dell’OFCOM che aveva suggerito la creazione di una nuova figura , posta sotto la propria vigilanza, il Public Broadcasting Publisher[2] incaricato di distribuire prodotti britannici originali e di alta qualità attraverso reti a larga banda, reti televisive digitali terrestri e altre piattaforme per le comunicazioni mobili.

Il nuovo Consiglio dei Fiduciari della BBC è interessante come voce dei cittadini e come organo fiduciario di verifica dell’operato dell’azienda e della congruità dell’utilizzo dei fondi pubblici con le missioni definite dalla Royal Charter ma non può certo fungere da esempio per un Paese che non ha conosciuto una rivoluzione liberale come il Regno Unito dove l’esecutivo verrebbe del tutto screditato se non nominasse persone di assoluta indipendenza e provata fama.

Difficile dunque adottare una soluzione all’inglese in Italia. Il Parlamento sotto questo profilo in una democrazia più debole ed più giovane come quella italiana, rappresenta senza dubbio un ruolo di rappresentanza del volere di tutti gli elettori e cittadini e non solo di quelli che hanno votato per i partiti o a maggior ragione per le coalizioni di partiti che hanno assicurato l’insediamento di un determinato esecutivo. Semmai possiamo dire che il Parlamento non basta non è sufficientemente rappresentativo come dimostra l’esperienza della nomina dei membri dell’Autorità italiana per le Comunicazioni che riproducono in una sorta di mini-parlamentino interno i rapporti di forza esistenti in quello autentico. Il che impedisce di fare dell’Autorità il grande elettore del vertice della Rai, a differenza del caso francese dove i membri del Conseil Supérieur de l’Audiovisuel sono nominati a rotazione non creando necessariamente omogeneità con la maggioranza presidenziale o in caso di coabitazione con la maggioranza parlamentare esistente.
Il ruolo costituzionale di garante della coesione della comunità è assicurato dal monarca (che controfirma la carta reale ma anche le nomine del vertice della BBC da parte del Governo) o dal Presidente della Repubblica che dovrebbe poter in qualche modo esprimere una parte dei membri del vertice e chiedere loro relazioni come per il parlamento.

Alcune funzioni storicamente esercitate dal CNEL potrebbero servire da spunto per adattare al quadro italiano parte dei principi utilizzati per la nomina degli organismi di vigilanza dei Laender in Germania. Un federalismo spinto dovrebbe favorire la nascita di veri e propri Assessorati regionali alle comunicazioni, la nascita di commissioni consiliari di vigilanza sulle comunicazioni regionali e la trasformazione dei Corecom in Autorità Regionali.

Sul piano nazionale la Commissione Parlamentare di vigilanza dovrebbe applicarsi all’intero sistema delle comunicazioni e le due Authorities Antitrust e Agcom esercitare la tutela della concorrenza e la regolazione del sistema delle comunicazioni. Il ruolo dell’organismo a capo della Rai (Fondazione Consiglio di Fiduciari, Voce degli abbonati al canone), qualunque sia il suo criterio di nomina, dovrebbe in ogni caso essere distinto anche sotto il profilo logistico da quello della Direzione Generale di cui diverrebbe in qualche modo una controparte, verificandone periodicamente l’operato e la congruità con la mission definita nel programma. In ogni caso va spezzata la diarchia e schizofrenia attuale.

Fatte queste osservazioni, possiamo dire che il contributo di Giancarlo Bosetti e di Alessandro Ovi contenga alcune osservazioni pienamente condivisibili. Penso all’idea “che la durata degli organi societari della Fondazione sia al massimo di cinque anni e comunque a “scavalco” di ogni legislatura”. Riteniamo altresì importante il contributo dato sugli indirizzi che dovranno essere emessi dalla Fondazione[3] e sul fatto che una volta verificata l’aderenza alla funzione di servizio pubblico[4], essa dovrà essere messa successivamente a confronto con l’impatto che si genera sul mercato[5] e che su quest’ultimo terreno risulta invece importante il ruolo dell’Autorità.

3. Il nuovo ruolo di indirizzo della politica

Come chiarisce il documento “La Fondazione è responsabile della verifica di aderenza alla funzione di servizio pubblico, mentre l’analisi di impatto sul mercato potrebbe essere condotta dall’AGCOM. Per quanto ci riguarda in ogni caso riteniamo che Governo e Parlamento attraverso la redazione e approvazione di un Documento di legislatura che fissi i confini del contratto di servizio e quindi dell’impegno del servizio pubblico nell’assolvimento di determinate missioni come contropartita del canone universalmente percepito.

Il Governo e il Parlamento devono fare certo un passo indietro rinunciando definitivamente ad interferire nella gestione interna del servizio pubblico, ma essi devono contemporaneamente riuscire a fare un passo in avanti attraverso una nuova Riforma in grado di conferire un indirizzo strategico alla Rai adeguato alle nuove sfide tecnologiche e in grado di fare i conti con una società italiana in grande trasformazione e soprattutto di ripensare la propria funzione di coesione sociale nella società dell’informazione.


4. Criteri possibili per la nomina del Comitato dei Garanti

Per parte nostra scarteremmo le due ipotesi suggerite da Gentiloni e dal documento di Bosetti e Ovi, dovendo per altro giudicare naturalmente improponibile in Italia una soluzione all’inglese di nomina da parte del Governo del Consiglio dei Fiduciari o della Fondazione a capo della Rai come avviene nel Regno Unito, modalità che nel contesto italiano ci porterebbe indietro di un trentennio sottraendo al Parlamento il controllo sull’azienda per restituirlo all’esecutivo.

Per questa ragione proponiamo una soluzione più simile a quella adottata in Germania che veda associati al destino del servizio pubblico non solo il mondo politico, ma anche quello delle imprese e dei sindacati, delle confessioni religiosi e della ricerca scientifica che unitamente a personalità indicate dal Presidente della Repubblica, dal Parlamento e dalle Regioni, dovrà individuare il Comitato di garanti a capo della Fondazione composto da pochi soggetti portatori di rilevanti valori sociali e culturali. Il Comitato di garanti della Fondazione nominerà al suo interno un Presidente e un Segretario generale.

I principi a cui la Fondazione del servizio pubblico radiotelevisivo dovrà ispirarsi saranno definiti in una "Magna Charta", un documento parlamentare di valenza costituzionale da approvare con maggioranza qualificata, che avrebbe come oltre Manica una scadenza decennale e sovrintenderebbe al contratto di servizio.

La Fondazione risponderà al Parlamento della coerente realizzazione dei principi contenuti nella Magna Charta. Alla Fondazione farà capo una holding, a cui spetterà la gestione del servizio pubblico radiotelevisivo e sarà retta da un Consiglio di amministrazione nominato dal Comitato di garanti della Fondazione stessa. Il canone sarà intestato alla Fondazione. La holding può agire come unica società o articolarsi in sub-holding.

Nella ipotesi ora descritta si conseguirebbe l'obiettivo di separare nettamente l'indirizzo strategico, che rimarrebbe al Parlamento attraverso l’approvazione della Magna Charta e della cui attuazione sarebbe garante la Fondazione, dalla gestione, cioè dalla holding che del suo operato risponde alla Fondazione stessa. La Fondazione individua attraverso un contratto di servizio gli obblighi specifici di servizio pubblico che devono essere assolti dalla holding ed in relazione ai quali le conferisce il canone, verificando periodicamente che l'attività della holding sia rispondente agli obiettivi fissati nel contratto di servizio.


Conclusioni. Il futuro multimediale ad accesso universale: la televisione via Internet

Vorremmo infine sottolineare un altro aspetto importante annunciato dal Ministro relativo al futuro e in particolare alla IPTV ovvero alla televisione veicolata attraverso Internet. Per evitare all’origine il formarsi di posizioni di monopolio sulla piattaforma Internet si prevede la parità di accesso alla rete per tutti i fornitori di contenuti via Internet.

La nuova normativa impone a Telecom Italia, in quanto soggetto notificato come detentore di un significativo potere di mercato, l’obbligo di offrire l’accesso alla larga banda a tutti gli operatori titolari di autorizzazione generale, ai fini della fornitura del servizio televisivo e comunque la distribuzione di contenuti multimediali in linea. . Sarà l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni a stabilire i criteri per una formulazione trasparente e non discriminatoria di tale offerta da parte di Telecom Italia.

Rimane il fatto che la penetrazione della banda larga in Italia è inferiore alla media europea e che occorreranno forti investimenti per le reti di nuova generazione a banda ultra larga. Non è ancora chiaro chi farà questi investimenti e chi li deciderà. Un nuovo soggetto pubblico o una nuova Agenzia a partecipazione pubblica? Oppure solo le imprese di mercato? Qualunque sia lo scenario, la separazione ipotizzata da Telecom Italia fra la rete d’accesso e i servizi di telecomunicazione sarebbe positiva per garantire parità d’accesso a tutti i competitori. Si dovrà infine pensare anche al wireless a larga banda. L’alternativa alla rete fissa sarà il Wimax, la rete via radio a banda larga in grado di coprire i centri urbani come le aree più remote usando frequenze ancora utilizzate dal Ministero della Difesa.


Per un New Deal della Comunicazione. Stato e mercato a quasi mezzo secolo dal primo centro-sinistra

Anche qui il compito del legislatore è arduo. Ma prima ancora che possa intervenire con soluzioni efficaci, le riforme di sistema vanno preparate con cura dalla politica in collaborazione con tecnici di elevato profilo.

Tornare a riflettere sul rapporto fra Stato e Mercato può sembrare un tuffo indietro nel tempo di quasi 50 anni. Di fronte alla globalizzazione e ad altri effetti di questo avvio del nuovo Millennio, proprio perché si chiede alla politica di favorire l’uscita definitiva dagli ultimi mercati protetti e il perfezionamento di certi lunghi e defatiganti processi di liberalizzazione (dagli ordini professionali al valore legale dei titoli di studio), si deve al contempo promuovere un nuovo limitato, oculato ma non per questo meno importante e decisivo, intervento pubblico nella società dell’informazione e delle reti della conoscenza.

La ricostruzione di un Cantiere per il Paese passa attraverso la riqualificazione della scuola, della sanità, dei trasporti e dei servizi, la realizzazione di nuove forme di eccellenza e di valorizzazione dei saperi e dei meriti, attraverso un Nuovo Corso capace di riprendere lo spirito riformista del primo centro-sinistra attraverso la ricostruzione di un nuovo Welfare della Comunicazione, uno Stato sociale intelligente che garantisca a tutti i cittadini l’accesso ai nuovi linguaggi e saperi.

La ridefinizione del ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo nel nuovo comparto multimediale è un passaggio chiave di questo New Deal e rappresenta quella che un tempo si chiamava riforma di struttura.
Roma, gennaio 2007
Note al testo:
[1] Le frequenze verranno assegnate a gara e il denaro incassato andrà in parte al Tesoro in parte finanzierà i progetti di copertura digitale.

[2]L’OFCOM sostiene che la nuova figura del Public Service Publisher (PSP), cioè l’Editore di Servizio Pubblico, grazie alle nuove infrastrutture tecnologiche, sarebbe in grado di distribuire contenuti e programmi di servizio pubblico destinati alle diverse piattaforme digitali e alle nuove piattaforme a banda larga, fornendo contemporaneamente servizi multimediali di prossimità destinati alle comunità presenti sul territorio Questa proposta ha suscitato l’immediata reazione delle emittenti di servizio pubblico, in particolare quella della bbc, ostile a qualsiasi forma di messa all’incanto o frammentazione del canone in una miriade di soggetti, a prescindere dalla loro natura di broadcaster pubblici o di semplici editori/fornitori di contenuti per il servizio pubblico.
[3] Gli indirizzi del servizio pubblico radiotelevisivo, nell’arco di concessione e nei contratti di servizio, dovranno essere formulati con modalità che consentano verificabilità e misura dei risultati e, nell’iter per la loro determinazione, appare opportuno giovarsi di periodiche rappresentazioni della società da parte di più agenzie qualificate. Per evitare dispersione di risorse, si dovrà tenere conto di quanto il mercato è in grado di offrire spontaneamente ai cittadini, ma anche di come l’evoluzione delle tecniche trasmissive e degli scenari di mercato possano creare squilibri significativi di accesso ai contenuti da parte dei cittadini. Gli indirizzi, inoltre, dovranno riguardare gli obiettivi da raggiungere e non le specifiche declinazioni editoriali dei contenuti che dovranno restare di responsabilità del broadcaster concessionario. I livelli di audience da raggiungere, tali da giustificare l’ottenimento delle risorse da canone e l’attribuzione della funzione, saranno, ove possibile, ricompresi negli obiettivi.
[4] Si può immaginare un sistema di valutazione della corrispondenza dell’attività del ‘broadcaster’ concessionario di servizio pubblico agli indirizzi emessi dalla Fondazione basato su quattro aspetti principali: -diffusione (“reach”: quante persone hanno accesso e useranno effettivamente un servizio),-qualità, -innovazione, -efficienza.
[5] È opportuno infatti valutare se il valore aggiunto di un servizio finanziato con denaro pubblico sia maggiore dell’impatto negativo sui concorrenti commerciali dal punto di vista del vantaggio del cittadino utilizzatore/consumatore. In una certa misura, il servizio pubblico distorce sempre il mercato, e la sua presenza può essere utile proprio in quanto strumento di alterazione (e quindi di governo) del mercato stesso. È importante, tuttavia, che tale distorsione non sia eccessiva, che abbia una logica di equilibrio e che sia quindi controbilanciata dal valore aggiunto per i singoli utilizzatori come per la società nel suo complesso.

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