
giovedì 16 ottobre 2014
Presentazione a Villa Medici nell'ambito di Eurovisioni della Dichiarazione Rifondativa di Infocivica

lunedì 4 luglio 2011
Una Rai Hyperlocal , per un nuovo primato del servizio pubblico
Denuncio subito la tesi che vorrei sostenere: siamo ad un cambio di lingua e non di linguaggio, ossia di struttura logica e non solo di forma espositiva, per il ciclo industriale delle news, e più in generale per l'intera offerta di servizio pubblico civile, di cui l'informazione è la materia prima.
Per questo credo che si debba procedere ad una riflessione che investa più radicalmente di quanto non si faccia il contenitore industriale del sistema televisivo, più che la concatenazione dei contenuti. E, prioritariamente, si debba dedicare più tempo all'analisi dei comportamenti degli utenti, piuttosto che alle elucubrazioni sul futuro dei format o delle applicazioni tecnologiche.
Credo che si debba partire dalla constatazione di Tim Bernars-Lee, il padre del web, che sostiene che Internet sia una rivoluzione sociale e non tecnologica.
Trovo, per questo, altamente emblematico il caso della Nokia . La sua crisi credo che vada attentamente studiata da parte dei grandi gruppi editoriali europei, in particolare dalla Rai.
Il gigante finlandese della telefonia cellulare ha visto in pochi anni il proprio mercato ridursi del 75%. Numerose sono le ragioni per cui i suoi modelli soccombono di fronte all'Iphone della Apple, o alla piattaforma Android di Google, o rispetto ai terminali che adottano il sistema editoriale di Microsoft. Ma la ragione delle ragioni, che riassume e spiega esaurientemente tutte le singole sconfitte è che Nokia,come cultura industriale, non è riuscita ad affrontare la rivoluzione copernicana, che ha portato il mercato della telefonia mobile dalla centralità dell'hardware a quella del software.
Il software oggi è il motore della società contemporanea .E' la rilevanza di questa nuova potenza industriale che ci spiega come mai la lista delle principali società più capitalizzate del mondo sia capeggiata da società che modellizzano funzioni individuali in algoritmi di software ( Google, Apple, Facebook,Yahoo,Microsoft), mentre le società che trasformano merci e consumano energia come General Motor o Ford,seguono a lunga distanza. Una tendenza di macroeconomia che investe, da tempo,l'area della comunicazione, ed in particolare l'editoria televisiva. I media sono la lente d'ingrandimento di questa tendenza. I contenuti sono ormai null'altro che linguaggi di applicazioni software. Le prime media company del mondo sono , appunto, sempre i centri del software editoriale come Google, Apple, Yahoo, Microsft, e nei singoli mercato, Amerca On Line negli Usa, e Telecom o Vodaphone in Italia.
Come spiega Lev Manovich, uno dei più completi analisti del mercato editoriale mondiale, nel suo ultimo, lucidissimo libro “Software culturale”, “Il software è ciò che rende possibile ciascuna delle nuove dimensioni vivere sociale su cui le teorie sociali dell'ultimo decennio si sono concentrate:l'informazione,la conoscenza, la reticolarità”.
Da questa constatazione discende una conseguenze che credo sia indispensabile alla nostra riflessione:la partita competitiva si gioca sulle capacità da parte dei vecchi gruppi editoriali di diventare centri servizi per l'automatizzazione di funzioni pregiate delle professionali multimediali.
In sostanza, usare la propria esperienza nel contatto con la platea del proprio pubblico per intercettare e elaborare domande di contenuti che diventano anche sistemi utente. I nuovi format televisivi sono sistemi utente portabili su tutte le piattaforme, il flusso delle news sono sistemi utente fruibili in ogni dove,l'intrattenimento on demand è un sistema utente selezionabile da ogni singolo spettatore.
Discutere di futuro aziendale per la Rai, discutere di primato nel campo dell'informazione di base, discutere di nuovi linguaggi giornalistici, significa discutere del potere di governare, negoziare e applicare la potenza del software al proprio ciclo produttivo.
Con questa affermazione drastica, so bene di essermi giocato gran parte della quota di indulgenza su cui contavo per esprimere schematicamente il mio pensiero .
Cercherò di non abusare della disponibilità di voi tutti a tollerare un ragionamento molto drastico e imperativo, ma si tratta anche di non perdere il vostro tempo in lungaggini cerimoniali.
Il secondo fattore che considero essenziale per ragionare ,oggi, di informazione pubblica, è la velocità.
“La bellezza della velocità” invocata da Marinetti nel manifesto futurista, oggi è diventata l'indispensabilità della velocità. I nuovi servizi di Google Instant e Facebook Real Time, introducono quella che nel mio ultimo libro-Sono le news,bellezza (Donzelli, 2011) - ho definito la “sesta W del giornalismo:W come While”.
Siamo , ormai da tempo, nell'epoca dell'informazione simultanea.
Nel 1980 la CNN nasceva con lo slogan “Slow news no news”.Oggi siamo arrivati alla formula “Slow Analysis no Analysis”.
Del resto il mondo ci dimostra che la velocità è ormai una pretesa sociale di massa. L'intera attività finanziaria oggi si gioca sul filo di alcuni millesecondi.Il sistema di hight frequency trading adottato dalla borsa australiana ha abbassato il tempo di esecuzione degli ordini da 3 millesecondi a 250 microsecondi (milionesimi di secondo). Gli spyder di Google che cercano risposte alle infinite domande dopo tre volte che rimangono delusi visitando un certo sito a caccia di notizie, cancellano quel sito dalle proprie liste. E' la morte professionale per chiunque vi lavori.
Software, velocità, e territorio. Siamo al terzo fattore di usabilità dell'informazione: la georeferenziazione.
La localizzazione delle informazioni in un contesto territoriale è oggi il requisito che da valore aggiunto alla competitività editoriale.
Sia negli Usa, che in Inghilterra, l'unico settore in ascesa dell'offerta di informazioni è proprio il cosi detto Hyperlocal, ossia la capacità di offrire, in real time, mappe che contengono e “impaginano” le singole notizie o istruzioni: una specie di Tom Tom del giornalismo.
Non a caso Around Me, la funzione, che assume nomi diversi per ogni tipo di provider, che permette di localizzare servizi o notizie sul territorio che ci circonda in un dato momento, è l'applicazione più clickata su ogni piattaforma.
Lungo questa linea di ragionamento si arrivo alla proposta di sviluppare anche nel nostro paese, un servizio di questo tipo. Un paese dove la mobilità territoriale supporta ruoli e funzioni centrali, dalla tipica conformazione comunalistica del sistema Italia, alle vocazioni turistiche e di tipicità economica locale (i distretti). Tutto in Italia ci porta a considerare il territorio come principale matrice della comunicazione.
Eppure manca un sistema sorretto da linguaggi, modelli e circostanze pertinenti, usabili, e assolutamente originali . Il punto è proprio capire come si debbano riconfigura e riprogettare sistemi e patrimoni informativi per assicurare una nuova lettura del territorio. Chi debba e possa riorganizzare professionalità e sopratutto, come abbiamo detto, piattaforme di software.
La Rai potrebbe essere il protagonista di questo progetto, dando finalmente risposta alla domanda che incombe da anni, e che trova sempre risposte ideologiche o astratte, circa quale missione pubblica vi debba essere in un mercato ormai dove si abbassano vertiginosamente le soglie di accesso e le abilità di produzione.
La Rai, proprio come servizio pubblico, può e deve essere il principale provider multimediale del paese che traduca nei nuovi linguaggi e comportamenti digitale l'offerta di informazione locale ,che fino ad ora l'ha contraddistinta come “diversa”.
La domanda di questo tipo di servizio è ormai fin troppo evidente: 11 regioni sono già impegnate nell'allestimento di piattaforme di web Tv georeferenziate. Numerosi canali locali si proiettano sul mercato nazionale:basta scanalare la fascia 500 dei canali Sky per trovare varie offerte di informazioni di flusso territorializzate.
Proprio su questo mercato locale, inoltre, la Rai dispone delle sue forse produttive più poderose, e costose, potremmo aggiungere:800 redattori, 22 sedi,mezzi e risorse tecniche rilevanti. Grande presenza, ma senza un primato riconosciuto.
La nostra proposta è un progetto, , di cui uno schema avanzato è già stato elaborato all'interno dell'azienda, per sviluppare un motore di informazione Hyperlocal, che coniughi la selezione dell'informazione, con la potenza di impaginazione in ogni ambito locale, fino all'estrema unità territoriale decentrata, che coincide con l'indirizzo dell'abitazione di ogni singolo utente. Il sistema infatti deve essere pensato sia per agire come infrastruttura delle redazioni regionali -una sorta di agenzia interna dell'azienda- dove integrare e raccogliere l'intero flusso di informazioni territoriali, sulla base di annunci, documenti e filmati che affiorano dalla rete; e sia come servizio on demand da proporre nel portale Rai e da distribuire poi con alleanze con provider telefonici. In sostanza si tratta di elaborare una capacità di raccolta di notizie locali, sulla base di software semantici, contestualizzandole poi in mappe tipo Google Earth.
Su questa base sarebbe possibile riorganizzare i processi produttivi nelle singoli sedi, spostando l'attività su funzioni di post produzione, cioè di re impaginazione di materiali prodotti da altri, e non più di arcaica riproduzione di quanto è già in rete. Fondamentale sarebbe poi l'integrazione della filiera delle fonti territoriali, come è la TGR, con il server di Rainews24, che tutt'oggi, anche se la stessa testata non sembra accorgersene, ha come patrimonio principale non tanto la capacità di duplicare funzioni e modelli da TG, quando la possibilità di integrare i flussi della rete nel modello industriale del Broadcasting, grazie alle sue dotazioni di server e database.
Nel breve spazio concessomi non sono in grado di allargare ulteriormente l'illustrazione della proposta ma spero nel dibattito di avere occasione di entrare nel merito del progetto.
E' questo un cambio radicale di orizzonte, me ne rendo conto. Un cambio non dissimile da quanto sta maturando BBC, come ci racconta Matteo Maggiore, e sopratutto come ci documenta il nuovo Digital Britain Act che orienta la nuova missione dell'ente radiotelevisivo pubblico inglese nel nuovo contesto digitale.
Un cambio di strategie, di mercato, di missione, di profili professionali. Sulla base della constatazione che quanto sta accadendo attorno a noi non ha nulla di determinismo tecnologico, ma molto di processo sociale, di trasformazione degli utenti e non delle tecnologie, che mutano come conseguenza e non come causa dei nuovi fenomeni.
lunedì 15 giugno 2009
Diteci sa valga la pena lavorare in rete
L'idea di Infocivica suggerita da
Dopo aver assicurato a partire dall'autunno 2008 un rilancio dell'Associazione con il concorso di Eurovisioni, Globus et Locus e Auditorium alla realizzazione di alcuni eventi significativi, riteniamo opportuno avviare un nuovo corso riorganizzativo dell'Associazione che - beneficiando gratuitamente delle risorse e opportunità fornite dalla Rete e del cervello e della creatività dei nostri associati - possa creare le premesse per fare di Infocivica un
incubatore e un serbatoio di nuove proposte editoriali che soddisfino le finalità indicate all'Art. 3 dello Statuto della nostra Associazione. La rete come fucina di creatività e di idee per il rinnovo della missione del servizio pubblico. Si tratta di un esperimento che vorremmo durasse 12 mesi sino alla prossima Assemblea Generale in cui potremo esaminare i risultati prodotti e decidere se andare avanti. Cerchiamo insieme di valutare tre punti:
a) punti di forza e di debolezza di questa sperimentazione in particolare sotto il profilo dell'accesso e della partecipazione dell'insieme degli associati
b) condizioni effettive alle quali i membri accettino di condividere le loro idee, i loro progetti realizzati in qualità di professionisti e i loro testi redatti come intellettuali e giornalisti nel rispetto delle norme a tutela dell'ingegno
c) modalità di comunicazione, marketing, eventuale "commercializzazione" dei progetti, brevetti, ecc. e di loro "pubblicazione" all'esterno, ovvero strumenti per renderli davvero
accessibili all'opinione pubblica.
La discussione avviata da Infocivica Social Network e i gruppi di studio di Infocivica PROJECT INCUBATOR costituiranno una parte essenziale sia della produzione di nuovi Documenti dell’Associazione sia della progettazione e dell’’elaborazione di nuovi progetti editoriali quali il progetto del Caleidoscopio per una nuova Enciclopedia Italiana, illustrato dal nostro Segretario Generale in occasione della presentazione nell’ottobre 2008 al Palazzetto del Burcardo del nostro Appello sulle ragioni del servizio pubblico cross mediale nella società italiana dell’informazione. Crediamo che l'accesso alla rete sia per tutti, indipendentemente dall'età, e quindi credo che indispensabile sia la funzione di Virgilio, di guida ma anche - senza offendere nessuno - quella di "badante crossmediale" ovvero di assistente quotidiano nei primi passi di ciascuno di noi in questo social network.
Attendiamo dunque i vostri commenti e consigli sui tre punti sopraindicati. Li pubblicheremo su INFOCIVICA OPEN SPACE (IOS) - IL BLOG DEGLI AMICI DI INFOCIVICA
mercoledì 13 maggio 2009
Presidenti, Amministratori Delegati e Direttori Generali URI EIAR RAI
1. UNIONE RADIOFONICA ITALIANA - URI
27 agosto 1924 Enrico Marchesi, Presidente Vice Presidente: Luigi Solari
17 novembre 1927 Trasformazione in EIAR. Raoul Chiodelli diventa A.D. e Direttore Generale
2. ENTE ITALIANO AUDIZIONI RADIOFONICHE - EIAR
15 gennaio 1928 Enrico Marchesi Vice-Presidenti: Luigi Solari e Arnaldo Mussolini
22 novembre 1933 Giancarlo Vallauri Presidente Raoul Chiodelli DG e AD
30 dicembre 1943 Ezio Maria Gray Commissario Straordinario Cesare Rivelli DG
14 agosto 1944 Luigi Rusca DG e AD
26 ottobre 1944 Trasformazione in Radio Audizioni Italia
3. RAI - RADIO AUDIZIONI ITALIA
20 gennaio 1945 (Rai solo nelle zone liberate) Luigi Rusca Commissario straordinario
22 aprile 1945 Arturo Carlo Jemolo Presidente e Armando Rossini DG
27 aprile 1945 (per la Rai in Alta Italia) Enrico Carrara Commissario straordinario CLNAI
15 luglio 1945 Finisce il controllo alleato sulla radiodiffusione
9 novembre 1945 La direzione generale centralizza le pratiche epurative
22 dicembre 1945 Arturo Carlo Jemolo Presidente, Enrico Carrara, Commissario straordinario CLNAI
La Rai nell’Italia repubblicana
2 agosto 1946 Giuseppe Spataro Presidente, Enrico Carrara Consigliere Delegato e DG gestione unificata
Ottobre 1947 Giuseppe Spataro Presidente e Salvino Sarnesi DG
28 gennaio 1950 Vice Presidente (reggente) Salvino Sarnesi DG
18 maggio 1951 Cristiano Ridomi Presidente e Salvino Sarnesi DG (poi interim Marcello Bernardi Vice DG)
10 aprile 1954 Nuova denominazione RAI-Radiotelevisione Italiana. In adempimento alla nuova Convenzione sorge a fianco del Presidente con funzioni di rappresentanza, la figura dell’Amministratore Delegato mentre quella del direttore generale sovrintende soprattutto i contenuti della programmazione
RAI- RADIOTELEVISIONE ITALIANA
3 giugno 1954 Antonio Carrelli Presidente, Filiberto Guala mministratore Delegato, Giovan Battista Vicentini Direttore Generale
27 giugno 1956 Antonio Carrelli Presidente, Marcello Rodinò di Miglione Amministratore Delegato, Rodolfo Arata Direttore Generale
18 gennaio 1961 Novello Papafava Presidente, Marcello Rodinò di Miglione Amministratore Delegato, Ettore Bernabei Direttore Generale
7 giugno 1964 Pietro Quaroni, Presidente, Marcello Rodinò di Miglione, Amministratore Delegato, Ettore Bernabei Direttore Generale
29 aprile 1965 Pietro Quaroni, Presidente, Gianni Granzotto Amministratore Delegato, Ettore Bernabei Direttore Generale
13 aprile 1969 Aldo Sandulli Presidente, Luciano Paolicchi Amministratore Delegato, Ettore Bernabei Direttore Generale
28 luglio 1971 Umberto delle Fave Presidente, Luciano Paolicchi Amministratore Delegato, Ettore Bernabei Direttore Generale
Luglio 1972 Umberto delle Fave Presidente, Ettore Bernabei Direttore Generale
14 aprile 1975 Approvazione della Legge di Riforma della Rai
La RAI DOPO LA RIFORMA
23 maggio 1975 Beniamino Finocchiaro, Presidente, Michele Principe Direttore Generale
Gennaio 1976 Attuazione della Riforma
20 gennaio 1977 Paolo Grassi Presidente, Giuseppe Glisenti Direttore Generale
12 -19 luglio 1977 Paolo Grassi Presidente, Pier Antonio Berté Direttore Generale
12-19 giugno 1980 Sergio Zavoli Presidente, Willy De Luca Direttore Generale
20 luglio 1982 Sergio Zavoli Presidente, Biagio Agnes Direttore Generale
23 ottobre 1986 Enrico Manca Presidente, Biagio Agnes Direttore Generale
1 febbraio 1990 Enrico Manca Presidente, Gianni Pasquarelli Direttore Generale
19 febbraio 1992 Walter Pedullà Presidente, Gianni Pasquarelli Direttore Generale
25 giugno 1993: con la crisi della Prima Repubblica viene approvata una nuova modalità di nomina di un più ristretto CdA Rai composto da 5 persone da parte dei Presidenti di Camera e Senato
13-23 luglio 1993 Claudio Demattè Presidente, Gianni Locatelli Direttore Generale
12 luglio - 3 agosto 1994 Letizia Bricchetto Moratti,. Presidente, Gianni Billia Direttore Generale
16 gennaio 1995 Letizia Bricchetto Moratti Presidente, Raffele Minicucci Direttore Generale
28 febbraio 1996 Letizia Bricchet0to Moratti Presidente, Aldo Materia (ff DG)
19 aprile 1996 Giuseppe Morello Presidente (ad interim) Aldo Materia (ff DG)
10-15 luglio 1996 Vincenzo Siciliano Presidente, Franco Iseppi Direttore Generale
3-5 febbraio 1998 Roberto Zaccaria Presidente, Pier Luigi Celli Direttore Generale
9 febbraio 2001 Roberto Zaccaria Presidente, Claudio Cappon Direttore Generale
16 febbraio 2002 Vittorio Emiliani Presidente (ad interim), Claudio Cappon Direttore Generale
5-19 marzo 2002 Antonio Baldassarre Presidente, Agostino Saccà Direttore Generale
18 marzo -1 aprile 2003 Lucia Annunziata Presidente, Flavio Cattaneo Direttore Generale
4 maggio 2004 Francesco Alberoni (Consigliere Anziano ad interim), Flavio Cattaneo Direttore Generale
Maggio 2005 Entrano in vigore le nuove norme di nomina del CdA secondo la Legge Gasparri
1 giugno 2005 Sandro Curzi (Consigliere Anziano ad interim) Flavio Cattaneo Direttore Generale
31 luglio - 4 agosto 2005 Claudio Petruccioli, Presidente, Alfredo Meocci Direttore Generale
22 giugno 2006 Claudio Petruccioli Presidente, Claudio Cappon Direttore Generale
26 marzo – 2 aprile 2009 Paolo Garimberti Presidente, Mauro Masi Direttore Generale
5 agosto 2015-6 giugno 2017 Monica Maggioni, Presidente, Antonio Campo Dall’Orto, Direttore Generale poi Amministratore Delegato
martedì 5 maggio 2009
DI MEGLIO E DI PIU' PRECISO. Dall'offerta radiotelevisiva lineare all'offerta crossmediale: identificare la diversità del servizio pubblico
Da anni esistono anche in Italia modalità di misurazione della qualità radiotelevisiva intesa come creazione di valore pubblico, ovvero di valore per questa nuova complessa comunità fatta di cittadini italiani e di immigrati stranieri, di minoranze linguistiche ma anche di una miriade di potenziali utenti disseminati in tutto il mondo interessati alla lingua italiana e più in generale ai valori e ai tratti della cultura, dell’arte di vivere, di vestire, di intraprendere di coloro che sono stati definiti Italian Oriented People e che sono stati definiti con efficacia dall’ex Presidente delle Camere di Commercio Italiane all’estero come “italici”.
Vediamo come si poneva la questione della percezione della qualità nelle prime tre tappe della storia del sistema mediale italiano e come si pone oggi al momento del passaggio dall’offerta di contenuti su media separati lineari ad una quarta fase che si sta aprendo caratterizzata da quella che è stata definita come l’integrazione cross mediale dei contenuti nella quale saltano le rigidità legate spazio temporali proprie della radiodiffusione nel Novecento
La prima stagione: nell’era dei regimi di monopolio (anni Venti- fine anni Settanta) - in un ambiente oligocanale analogico su frequenze terrestri - la questione della qualità sostanzialmente non si poneva se non i termini generici di rilevazione di indici di apprezzamento degli ascoltatori tali da soddisfare anche le esigenze degli inserzionisti pubblicitari e degli sponsor dei programmi radiofonici.
A differenza della BBC e del modello di broadcaster pubblico che si andrà affermando nel dopoguerra, il caso italiano si caratterizza infatti sin dalla nascita come un modello ibrido “pubblico-privato” con imprese di diritto privato che andranno a partire dagli anni Trenta operando nell’ambito della costellazione delle cosiddette imprese a partecipazione statale.
Nei primi anni di vita dell’Unione Radiofonica Italiana il modello è quello di una radio privata d’élite che si rivolge a pochi fortunati possessori di apparecchi radiofonici che pagano un canone di abbonamento al servizio con un palinsesto dominato da programmi musicali e che trasmette un ristretto numero di bollettini informativi realizzati da un’Agenzia di stampa posta sotto la tutela del governo. Anche dopo il passaggio del nuovo Ente Italiano Audizioni Radiofoniche e il progressivo controllo di tale organismo da parte del regime fascista, l’esistenza di moderne forme di messaggi pubblicitari mutuati dal modello delle radio commerciali statunitense, fa della radio italiana un caso piuttosto originale nel panorama radiofonico europeo, a metà strada fra il modello di finanziamento pubblico britannico - che, con la nascita della nuova British Broadcasting Corporation, garantiva indipendenza e autonomia non solo dal potere politico ma anche da quello economico - e il modello commerciale adottato in regime di concorrenza sotto la tutela di un’Authority negli Stati Uniti.
Nonostante il successivo tentativo anche in Italia di ”nazionalizzazione delle masse” e l’uso propagandistico sempre più marcato della radio da parte del regime, i dirigenti dell’EIAR, seppur soggetti ad uno stringente controllo preventivo da parte del regime soprattutto quando esso viene trasferito al Ministero per la Stampa e Propaganda poi divenuto Ministero per la Cultura Popolare, beneficiano di una relativa autonomia di programmazione grazie all’esigenza di soddisfare le richieste del pubblico e quello degli inserzionisti pubblicitari e di alcuni sponsor che contribuiscono come oltre Oceano a finanziare determinati programmi quali ad esempio i concerti.
Questa felice ambivalenza si mantiene anche dopo la caduta del regime fascista con la fine dell’EIAR e la nascita di un nuovo soggetto di servizio pubblico, la Rai, nel secondo Dopoguerra. Anche in questo caso abbiamo a che fare con un soggetto di diritto privato ma titolare per convenzione della missione di servizio pubblico può operare come Giano Bifronte con una certa libertà di manovra, beneficiando peraltro della sua posizione di monopolista privo di concorrenti.
Ciò le consente, dopo il varo della televisione, di assicurare negli anni del Miracolo economico a cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta, l’unificazione linguistica del paese e l’alfabetizzazione di massa degli italiani e - dopo la Riforma del 1975 - di avviare un primo tentativo in senso regionalista di rappresentare le varie realtà territoriali del Paese. Una certa dose di paternalismo e di pedagogismo “octroyé” (come direbbero i francesi), ovvero promulgato e imposto dall’alto non solo negli anni della dittatura ma anche in quelli della ricostruzione e nei primi 15 anni della Repubblica, non impediscono ai suoi dirigenti di effettuare una completa trasformazione da medium d’élite (com’era appunto la radio almeno sino allo scoppio della seconda guerra mondiale) nel principale oggetto di desiderio delle famiglie italiane, ovvero il televisore, che andrà sempre più sostituendosi al cinematografo nel tempo libero.
La qualità dovuta dalla missione istituzionale - accordata in base ad una convenzione rinnovata con lo Stato repubblicano nel 1952 - riesce a conciliarsi sostanzialmente con la qualità percepita e con il gradimento del pubblico (privo di alternative se non quella appunto di andarsene al cinematografo) rispondendo alle esigenze di un contingentato numero di inserzionisti pubblicitario e sponsor.
La seconda stagione con la fine del monopolio pubblico - dapprima in ambito locale e successivamente anche in ambito nazionale attraverso la cosiddetta interconnessione funzionale e la nascita dei grandi network commerciali finanziati esclusivamente da moderni spot pubblicitari e sponsorizzazioni che allargano sensibilmente il numero delle imprese inserzioniste, apre sostanzialmente il primo solco fra qualità dovuta e qualità percepita, provocando un sostanziale processo di omologazione dell’offerta del servizio pubblico con quella proposta dai network commerciali.
Il primo quindicennio del sistema misto dove coesistono soggetti pubblici e privati (dalla prima parte degli anni Ottanta sino alla prima metà degli anni Novanta) costituisce l’apoteosi della televisione e il primato dell’offerta generalista con programmi sempre più segnati dalla cosiddetta “Dittatura dell’Auditel”, ovvero dalla disperata ricerca dell’audience per soddisfare le esigenze degli inserzionisti in una logica di flusso continuo di immagini che rende il telespettatore sempre più passivo anche perché privo di offerte alternative come quelle che invece iniziano ad offrire in altri Paesi soprattutto nel Nord Europa alcune piattaforme distributive alternative sui circuiti via cavo, o in ricezione diretta via satellite.
Dalla felice anomalia italiana di Giano Bifronte, in questa seconda stagione il servizio pubblico diventa un Ircocervo metà servizio-metà impresa che assolve sempre meno la propria missione pubblica senza beneficiare della grande espansione delle risorse pubblicitarie. Perdendo le proprie prerogative di monopolista e assecondando al contempo sempre di più quelle degli inserzionisti a scapito delle missioni di servizio pubblico, si tende in qualche modo in un primo tempo a mettere in sordina la questione della qualità televisiva dei programmi trasmessi e del recupero della propria identità originaria: solo a partire dagli anni Novanta ci si renderà conto che essi rappresentano il fattore critico di successo per continuare a competere e a contrastare la concorrenza delle nuove emittenti commerciali che in virtù di una nuova legge di sistema beneficiano ormai della diretta e possono competere ad armi pari con l’impresa concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo.
La terza stagione (dalla seconda metà anni Novanta alla prima metà di questo decennio) inaugura una nuova fase dove con l’emergere delle nuove piattaforme digitali, inizia a declinare il primato dell’offerta radiotelevisiva di tipo generalista, ovvero rivolta ad un pubblico indifferenziato e dove una massa ancora piccola ma crescente di utenti inizia a dirottare i propri consumi al di fuori delle offerte proposte dai tradizionali strumenti di comunicazione di massa. Ci si rende conto definitivamente degli effetti devastanti dell’omologazione dell’offerta nella stagione precedente e della necessità di vincere la competizione sugli ascolti attraverso la qualità del servizio offerto che inizia ad essere dispensato anche sotto forma di nuovi canali tematici su queste nuove piattaforme.
Lo sviluppo delle prime offerte televisive multicanali digitali a pacchetto (i cosiddetti bouquet) coincide con il momento in cui va prepotentemente affermandosi uno strumento capillare di comunicazione bidirezionale interattiva come quello costituito dai nuovi siti disponibili attraverso il World Wide Web la nuova rete di interconnessione a ragnatela fra le diverse reti telematiche esistenti, nota come Internet. Le nuove offerte multicanali digitali e la crescita tumultuosa di Internet a cavallo dei due millenni tornano a porre al centro la questione della missione di coesione sociale a beneficio di una nuova forma di collettività intesa in senso locale-globale, ovvero “glocale”.
L’emergere di una sorta di Babele elettronica ovvero di caotica convivenza di un numero sempre più diversificato di offerte e di servizi, lineari e non, monodirezionali e interattivi, destinati ad essere fruiti tu terminali fissi e/o su terminali mobili, rende sempre meno efficace e comunque imperfetto l’Auditel per la rilevazione dei consumi mediatici degli italiani. Anche in Italia, nonostante l’assenza di sviluppo delle reti via cavo, gli utenti e i cittadini sono ormai sottoposti a diete sempre più raffinate e con i segmenti attivi della popolazione alle prese con una sempre più problematica gestione del fattore tempo, ovvero del tempo a disposizione per lo svago e per i consumi culturali a fronte di una crescente popolazione anziana non più attiva ma destinata comunque, pur non possedendo elevati tassi di alfabetizzazione ai nuovi linguaggi multimediali, non più appagata in toto dai tradizionali canali generalisti che era abituata a consultare attraverso un telecomando.
La crescita del numero di abbonati alle piattaforme a pagamento - e più in generale il ruolo di traino rappresentato dalle pay tv e più in generale dalle offerte premium di eventi sportivi e di lungometraggi cinematografici che diventano le locomotive di sviluppo delle offerte multicanali digitali - sanciscono la fine del modello del broadcaster verticalmente integrato e degli editori radiotelevisivi tradizionali incentrati sul primato del palinsesto e degli indici di ascolto, a favore di un nuovo soggetto, l’operatore multicanale a pagamento, titolare a monte dei diritti in molti casi in regime di esclusiva elle nuove offerte e a valle della gestione ad accesso condizionato degli abbonati attraverso un sistema di cifratura dei segnali che vengono decodificati da un apposito ricevitore collegato al televisore.
Nel passaggio dalla televisione oligocanale analogica alle nuove offerte televisive multicanali, l’utente finale, il nuovo telespettatore di fine millennio torna ad essere centrale come ai tempi del monopolio del servizio pubblico, ma in quanto consumatore di servizi a pagamento: dal primato degli ascolti del vecchio broadcaster passiamo alla centralità tendenziale da parte del gestore della piattaforma preoccupato della compravendita dei diritti e della gestione attraverso un decoder degli abbonamenti.
Contemporaneamente non assistiamo - come avvenuto in occasione del passaggio al sistema misto - ad una rapida moltiplicazione delle risorse ma ad un loro ulteriore assottigliamento fra un numero più articolato di soggetti in campo e di offerte. I nuovi canali digitali anziché puntare alla qualità, privi di adeguate risorse all’eccezione delle offerte premium, si limitano ad affettare una televisione generalista sempre più priva di qualità.
In questo quadro editoriale che diventa sempre più affollato e competitivo il servizio pubblico appare come un incumbent, una vecchia signora che perde smalto, rischia di non trovarsi più ai primi posti nella numerazione e, anziché governare la difficile transizione verso la televisione “tutta digitale” ed assumere un ruolo di apripista tecnologico, è fortemente tentato da volerne al contrario rallentare lo sviluppo, forte delle vecchie rendite di posizione di cui sino ad allora aveva potuto ancora disporre nonostante l’insediamento di un’Autorità Antitrust e di nuove imperative richieste da parte dell’Unione Europea di separazione contabile fra attività editoriali “mission oriented” finanziate dal canone e iniziative finanziate da altre fonti commerciali e in particolare dalla pubblicità e dalle sponsorizzazioni.
Non si percepiscono ancora in questa terza fase le grandi potenzialità rappresentate dalla materia prima di cui il servizio pubblico dispone, ovvero il ricco archivio accumulato nel passato né l’importanza di due fattori critici di successo quali la diversità delle offerte e dei generi e la qualità dei propri programmi rispetto a quelle dei grandi network commerciali e dei “poveri” canali tematici. Dal vecchio slogan “cercasi audience disperatamente” che lo costringeva a rincorrere il competitor commerciale sul segmento generalista, si acquisisce la consapevolezza che il nuovo servizio pubblico crossmediale può continuare ad avere una propria ragione di esistenza solo se riuscirà a riconcentrarsi nella ricerca della qualità e nel rigoroso assolvimento della sua missione di garante del pluralismo e della coesione sociale .
La quarta fase. Con l’avvento - a fianco delle piattaforme satellitari e di quella su reti telefoniche - della nuova offerta televisiva digitale terrestre destinata ad interessare tutte le famiglie in seguito al progressivo spegnimento delle trasmissioni in tecnologica analogica, a partire dal 2005 siamo entrati in una quarta fase dove assisteremo non solo al passaggio ad un ambiente multipiattaforma “tutto digitale”, ma anche ad una più compiuta ed irreversibile convergenza tecnologica fra reti di radiodiffusione circolare e reti di telecomunicazione.
Dall’attuale persistente Babele elettronica dove coesistono media separati su più piattaforme assisteremo alla nascita di una nuova Grande Tela (quella che taluni hanno chiamato Internet 2.0 altri addirittura Internet 3.0) in cui confluiranno le reti radiofoniche e televisive classiche senza ormai più limiti di irradiazione spaziali né temporali. In questa seconda (e probabilmente accelerata) transizione verso l’integrazione crosssmediale e la distribuzione intelligente dei contenuti e dei saperi in rete, occorre predisporre un oculato dosaggio dove coesistano media lineari e offerte di “comunicazione conservata in rete” e a fronte della moltiplicazione dei terminali e delle modalità di fruizione fissa (centralina intelligente) e mobile.
Come già avvenuto per Internet, diventa sempre più cruciale la conoscenza dei propri clienti ed utenti e il ruolo rappresentato dal motore di ricerca nella costruzione di diete mediatiche a misura dei singoli utenti. L’effetto “coda lunga” costituito dai nuovi mercati di nicchia e dalle sempre più raffinate offerte proposte con nuovi standard ad elevatissima qualità (a cominciare dall’alta definizione su schermi piatti) può incrementare il ciclo di vita dei prodotti e programmi a utilità ripetuta a scapito delle offerte “usa e getta” che hanno così largamente interessato gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.
Contemporaneamente la qualità di tale offerta può e deve coniugarsi con l’imperativo di lottare contro la frammentazione del corpo sociale assicurando una dieta mediatica diversificata e di qualità anche ai ceti monomediali più poveri e meno alfabetizzati. Solo così il servizio pubblico crossmediale potrà assicurare una nuova coesione della propria comunità di riferimento si trovi essa in ambito locale e/o nazionale, o in ambito europeo e globale
Conclusioni. L’Italia celebrerà nel 2011 il Centocinquantenario dalla nascita del proprio Stato unitario. Non sappiamo ancora se il 2011 coinciderà con la messa a punto di un nuovo assetto statuale in senso federalista basato su principi di sussidiarietà e di cooperazione in ambito inter- e macroregionale nell’ambito di un rilancio del processo di costruzione di un’Europa dotata di istituzioni politiche più forti ed influenti in un mondo sempre più globalizzato. Ma siamo convinti che il 2011 può rappresentare una sorta di terminus a quo di una nuova idea, di un nuovo concetto di servizio pubblico crossmediale che operi in senso “intelligente” all’interno di un inedito Welfare, per avviare, dopo la grande crisi finanziaria che ci sta colpendo, la ricostruzione dell’economia, della cultura e dei saperi nella società in rete. Quattro anni dopo, nel 2015 Milano ospiterà l’Expo Universale dedicata al tema dello sviluppo sostenibile. Questo grande evento può a sua volta rappresentare il terminus ad quem della fase sperimentale di questo nuovo servizio crossmediale. Ciò consentirebbe di prepararsi in modo appropriato alla scadenza prevista nel 2016 con il rinnovo della Convenzione fra la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e il nuovo servizio pubblico crossmediale incaricato di assolvere la propria missione di coesione sociale nella network society.
Come Giovanni Gentile realizzò negli anni Venti e Trenta con l’Enciclopedia Italiana un’opera editoriale di eccellenza, il servizio pubblico crossmediale può fare della diversità culturale e dell’eccellenza il proprio segno distintivo in questo secolo, intercettando e coordinando tutti i fornitori di contenuti pubblici e di pubblica utilità nella costruzione di un grande edificio, di un moderno tempio, al contempo garante e custode dei saperi condivisi in rete. Senza dimenticare il tradizionale presidio generalista e più in generale una ricca ed articolata presenza nell’universo radiotelevisivo lineare, il nuovo servizio pubblico crossmediale potrebbe predisporre un Museo Virtuale dell’italicità, una Grande enciclopedia della lingua della cultura e delle punte di eccellenza del sapere e dell’arte. Una sorta di caleidoscopio, un luogo, uno specchio nel quale la comunità possa leggersi e rispecchiarsi, un luogo in cui sentirsi italiani fra gli italiani, ma anche europei fra gli europei, una garanzia di servizio universale accessibile a tutti i cittadini ma anche un luogo finalizzato ad un’ordinata convivenza nella nuova Grande Tela Multimediale, un luogo in cui tutti e ciascuno si senta rappresentato, in cui nessuno abbia il timore che c’è qualcuno che provvede a deformare lo specchio o a truccare le carte.
giovedì 9 ottobre 2008
Le Ragioni di un servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale per la società italiana dell'informazione
APPELLO DELL'ASSOCIAZIONE INFOCIVICA - GRUPPO DI AMALFI
Si può fare a meno del servizio pubblico radiotelevisivo in Italia? Crediamo con convinzione di no, perché:
- La nostra società, in perenne e veloce trasformazione, vive crisi continue anche in termini di valori e cultura. Oltre a una informazione e formazione pubblica sulla sicurezza collettiva, è quindi necessario un luogo, uno specchio, nel quale la comunità nazionale possa leggersi e interpretarsi: senza negare ipocritamente la funzione “educativa”, nel bene o nel male, che i media comunque conservano.
- Nella nuova società multietnica, è necessario un luogo nel quale la comunità nazionale integri gli extraeuropei che vivono nel nostro Paese.
- E’ necessario un luogo in cui sentirsi italiani fra gli italiani, ma anche europei fra gli europei, nel continente nel quale i servizi pubblici di radio e televisione sono nati e si sono sviluppati, e dove sono riconosciuti e regolati come tali dall’Unione Europea.
- Questo luogo non può che essere un luogo di tutti: un luogo in cui tutti e ciascuno si senta rappresentato, in cui nessuno abbia il timore che c’è chi provvede a deformare lo specchio o a truccare le carte.
- Questo luogo è il Servizio Pubblico di radio e televisione: una garanzia di servizio universale, cioè accessibile a tutti i cittadini; un luogo finalizzato a una ordinata convivenza.
- Noi di Infocivica vogliamo contribuire a ricostruirlo.
Il servizio pubblico che noi vogliamo
Il Servizio Pubblico che vogliamo ricostruire vivrà, come accade negli altri Paesi europei, all’interno di un sistema radiotelevisivo misto, pubblico e privato. Garanzia, noi crediamo, di equilibrio tra libertà di impresa, pluralismo, e comunicazione di origine pubblica.
La comunicazione pubblica va completamente riqualificata. Va ricostruito il rapporto di fiducia con gli italiani, che non credono più nel “pubblico” privatizzato da partiti e lobbies. Che non credono più ai giornalisti fiduciari di questo o quello, non certo dei cittadini. Che non sanno più la distinzione tra spettacolo e informazione. Che, in ultima analisi, hanno mostrato di credere di più ai comici. Forse, per mestiere più attenti ai bisogni del loro pubblico.
Le nuove regole per governare la difficile transizione verso l’era delle comunicazioni digitali
Noi di Infocivica pensiamo, dunque, a un nuovo Patto con i cittadini. Un patto assicurato da uno statuto di garanzia “costituzionale” per il Servizio Pubblico, un patto che garantisca non solo una generale qualità bensì precisi elementi di utilità pubblica, per tutti e in particolare per tutti coloro che, per diverse motivazioni, hanno bisogno di una comunicazione libera da condizionamenti, compresi quelli economici
Il Patto con i cittadini definirà il Contratto di servizio che dovrà trasformarsi, come in Gran Bretagna, in una carta pubblica e solenne attraverso cui la missione del servizio pubblico viene affidata ad un organismo di garanzia che vigili sulla gestione professionale dell’azienda, definendone perimetro e obiettivi.
Le risorse da canone devono essere fiscalizzate, perdere ogni carattere di aleatorietà e assicurare una quota maggioritaria e crescente rispetto agli introiti derivanti da altre attività di tipo commerciale, a cominciare dalla raccolta pubblicitaria.
Il processo di risanamento dell’azienda di servizio pubblico richiede mandati che abbiano durata definita e non troppo limitata, come nel Regno Unito nel quale la Royal Charter viene rinnovata ogni 10 anni.
L’organismo che gestirà il Servizio Pubblico dovrà dedicare impegno prioritario a rilegittimare l’idea stessa di “pubblico” nel nostro Paese. Per questo, e non solo per questo, è necessario un progetto industriale adeguato e competitivo sul piano internazionale, in sintonia con gli altri Servizi Pubblici europei.
Va guidato da poche personalità di grande rilievo, prive di conflitti di interesse e soggette a vincoli restrittivi alla fine del loro mandato. Questo Consiglio sarà incaricato di vigilare sull’applicazione della carta pubblica e di nominare manager di alto profilo sottraendoli a logiche di spartizione fra le forze politiche, ma anche fra le imprese economiche. Agirà come “voce dei cittadini”, unici “editori di riferimento”.
Un'offerta autorevole, qualificata e differenziata per offrire servizi e valori ai cittadini
. Il carattere di servizio pubblico deve riguardare tutta la offerta: tutti i generi e tutti i target, anche quelli minoritari, ed estendersi dai tradizionali canali generalisti alle nuove tipologie di comunicazione delle reti digitali, non per fare concorrenza ai privati ma per offrire servizi e valore ai cittadini. Nel nuovo ambiente digitale ha poco senso ridurre l’offerta in modo indiscriminato, qualora il dimagrimento degli ascolti arrivi a mettere in pericolo la funzione di coesione sociale storicamente rivestita dal servizio pubblico. La progressiva coincidenza tra sistema radiotelevisivo e nuovi media in rete digitale impone regole comuni, ma anche la definizione di chiari limiti negli interventi del servizio pubblicamente finanziato.
Qualunque sia il numero delle frequenze attribuite al nuovo Servizio Pubblico, alla fine del processo di riorganizzazione sarà necessario ridefinire le missioni editoriali specifiche e gli standard qualitativi di ciascun canale.
Garantire la qualità dovuta istituzionalmente nei confronti dei cittadini
Il Servizio Pubblico richiede un’attenzione particolare ai contenuti trasmessi, attraverso oculate scelte editoriali nell’ottica di una politica di innovazione e di riposizionamento dell’offerta tradizionale, radiofonica e televisiva, nel nuovo ambiente digitale multimediale interattivo. Deve agire da supporto e da regolatore verso l’iniziativa privata di produzione dei media, attuando nei diversi generi una efficace politica di controllo della qualità. Oltre i pur necessari obiettivi di ascolto “fotografati” da una rinnovata Auditel, non ci si può fermare alla soddisfazione della “qualità percepita” dai telespettatori ma - come ricordava Jader Jacobelli - garantire la “qualità dovuta” istituzionalmente nei confronti dei cittadini.
Seguendo questi principi, potremo avere nel nostro Paese un servizio pubblico direttamente ispirato alla definizione contenuta nel cosiddetto “Protocollo di Amsterdam”, divenuto ormai parte integrante del diritto comunitario: “La radiodiffusione di servizio pubblico negli Stati membri è rettamente legata ai bisogni democratici, sociali e culturali di ciascuna società e altresì alla necessità di preservare il pluralismo nei media”. Tale definizione non ha perduto nulla della sua importanza: al contrario, il suo significato si è rafforzata nella integrazione europea, nell’allargamento dell’Unione a 25 membri, nella evoluzione tecnologica e nelle sopravvenute emergenze nella società dell’informazione. Nella rapida evoluzione delle tecniche di comunicazione, gli stessi errori – quando ci sono stati – dei concessionari di servizio pubblico hanno confermato la loro importanza come fornitori insostituibili di contenuti di qualità ai cittadini europei.
Regole certe per tutti gli attori del nuovo sistema delle comunicazioni elettroniche
Il Parlamento vigili sul rispetto delle nuove regole di governance del servizio pubblico, sanzionando qualsiasi interferenza nella sua gestione, anche quella di propri membri, e procedendo periodicamente ad un’attività di vigilanza e di indirizzo sull’intero sistema delle comunicazioni elettroniche a distanza, qualunque sia la piattaforma di diffusione e di distribuzione.
Il pluralismo, anche quello della informazione, deve essere assicurato dall’equilibrio e dalla varietà delle voci ospitate e non dalla lottizzazione dei posti di comando. La tutela dei minori e il rispetto della dignità umana saranno frutti ulteriori della promozione di un profilo elevato dei diritti e dei doveri del giornalista e del dirigente del servizio pubblico, e di una rinnovata e trasparente politica di selezione del personale.
Informazione, fiction, intrattenimento e programmi culturali richiedono pari attenzione: occorre accompagnarli nella loro evoluzione, anche nel superamento tra le divisioni rigide tra i generi, con normative che tengano conto delle nuove prassi e difendano le distinzioni essenziali
L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni è responsabile dell’applicazione delle leggi, della definizione di regole comuni del sistema misto, pubblico e privato, per la radio, la televisione e per la loro interazione con gli altri media nell’ambiente digitale. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato deve vigilare al rispetto delle regole e a tutela della concorrenza nel nuovo ambiente digitale, impedendo la formazione di qualsiasi forma di posizione dominante, a cominciare dall’uso delle frequenze che devono tornare ad essere considerate un bene della collettività.
Una nuova pianificazione dello spettro radioelettrico per l’era digitale e un conseguente piano pubblico di riassegnazione delle frequenze digitali terrestri sono passaggi obbligati per uno sviluppo ordinato di tutto il sistema, sia pubblico sia privato.
Per un servizio pubblico radiofonico televisivo e multimediale
Il servizio pubblico deve presidiare l’offerta dei nuovi servizi della convergenza multimediale al fine di favorirne lo sviluppo ordinato e di salvaguardare la diffusione dei contenuti di qualità e interesse generale
Possono essere necessari finanziamenti pubblici per l’avvio delle infrastrutture di rete al servizio della collettività, e laddove risultino insufficienti, le risorse dovranno essere reperite attraverso contratti di servizio o il ricorso al mercato.
Anche nei nuovi media deve essere esaltata la missione di servizio pubblico, intesa anche come volano di sviluppo dell’intero comparto multimediale. L’esperienza avviata nel Regno Unito è preziosa: il sito della BBC – leader nelle consultazioni in rete fra i cittadini del Regno Unito – risponde esclusivamente a missioni di servizio pubblico definite dal legislatore. Pur essendo stato costretto dall’Autorità inglese di vigilanza ad abbandonare iniziative di carattere più marcatamente commerciale, non per questo il sito ha ridotto il numero dei contatti, consentendo al contrario al servizio pubblico di svolgere anche sotto questo profilo un ruolo di apripista nell’era digitale.
Grande attenzione va posta allo sviluppo dei nuovi canali dell’ambiente digitale, e alla loro progressiva integrazione nell’offerta generalista. Il presidio dei generi deve essere riportato al centro delle logiche organizzative della produzione, senza peraltro abbandonare il presidio dei canali, formando così una struttura a matrice che incrociando il presidio deì canali, tradizionali e nuovi, con quello della produzione dei generi, favorisca sviluppo ed equilibrio basati sulle competenze.
L’offerta territoriale, rivitalizzata dal digitale terrestre – che costituisce lo spazio logico e naturale per sviluppare servizi e funzioni utili ai cittadini – deve diventare una nuova frontiera del servizio pubblico. La sua attuale arretratezza rispetto alla media europea è forse tra le cause della parcellizzazione dell’offerta privata locale: le sinergie possono prevalere sulla concorrenzialità spinta.
Gli Enti locali richiedono accesso al servizio pubblico, ma devono avvalersi di una professionalità giornalistica autonoma, ancorché sensibile alle esigenze delle istituzioni, affidandone il coordinamento a organismi autonomi di garanzia.
Anche in Italia, attraverso una azione combinata a medio termine che favorisca la convergenza tra radiofonia e televisione tradizionali e nuovi media interattivi, sarà possibile contrastare il digital divide fra nord e sud, recuperare segmenti del pubblico giovanile e alfabetizzare contemporaneamente quello più maturo ai nuovi linguaggi multimediali. Parafrasando la celebre trasmissione del maestro Manzi, anche in questo caso, quasi mezzo secolo dopo Non è mai troppo tardi! Solo in questo modo riusciremo ad evitare “un gioioso suicidio pubblico”.
Roma-Bruxelles, gennaio 2008
Promotori e sostenitori di Infocivica: Bino Olivi (Presidente), Roberto Amen, Francesca Ananìa, Alberto Arcari, Angela Barberini, Flavia Barca, Alfio Bastiancich, Gianni Bellisario, Lorena Benatti, Luigi Bizzarri, Maurizio Brunialti, Manlio Cammarata, Claudio Caprara, Gabriella Carosi, Robert Castrucci, Ugo Cavaterra, Angelica Ceccarelli, Andrea Cendali Pignatelli, Claudio Cesaretti (Vice Presidente),Romano Chiovenda, Nicola Cona, Licia Conte, Roberto Costa, Tiziano Cristani, Daniele Damele, Renato De Chiara, Donatella della Ratta, Nicola Del Duce, Vittorio Del Duce, Nicola De Rinaldo, Lino De Seriis, Dario Evola, Franca Faccioli, Edoardo Fleischner, Alessandro Forlani, Antonio Formichella, Luciano Gambardella (Tesoriere), Luigi Gambardella, Maria Gabriella Garsia, Jader Jacobelli, Erik Lambert, Giuliano Lemme, Giancarlo Loquenzi, Umberto Marongiu, Elio Matarazzo, Giacomo Mazzone, Andrea Melodia, Marilisa Merolla, Michele Mezza, Giovanna Milella, Gerardo Mombelli (Vice Presidente), Carlo Monti, Paolo Morawski, Salvatore Morello, Italo Moscati, Stefano Munafò, Roberto Olla, Giorgio Pacifici, Silvana Paruolo, Massimo Pasquini, Pierfrancesco Pensosi, Andrea Piersanti, Augusto Preta, Giuseppe Rogolino, Stefano Rolando, Sergio Rossini, Nino Russo, Massimo Sani, Lucio Saya, Concetta Seminara, Claudio Sestieri, Bruno Somalvico (segretario Infocivica), Gianluca Stazio, Gaetano Stucchi, Emilio Targia, Laura Testa, Ivana Trevisani, Sandro Vannucci, Andrea Vianello, Antonello Vodret e Angelo Zaccone Teodosi.
Hanno sinora aderito: Piero Angela, Sergio Bartole, Piero Bassetti, Ernesto Bettinelli, Giancarlo Bosetti, Luciana Castellina, Liliana Cavani, Piero Craveri, Leopoldo Elia (†), Massimo Fichera, Enrico Manca, Pio Marconi, Gianpietro Mazzoleni, Piero Melograni, Mauro Miccio, Mario Morcellini, Paolo Pombeni, Alberto Quadrio Curzio, Francesco Perfetti, Aldo G. Ricci, Giuseppe Richeri, Giorgio Ruffolo e Sergio Zavoli.
martedì 15 gennaio 2008
Osservazioni critiche sul DDL Gentiloni
Il DDL Gentiloni, le interviste e gli interventi più recenti anticipatori delle Guidelines per il futuro del servizio pubblico e le proposte contenute nel documento “per un nuovo servizio pubblico radiotelevisivo nell’era digitale” segnano una positiva inversione di tendenza nell’opinione pubblica in generale, e nella fattispecie in quella di centrosinistra, segno di una nuova consapevolezza dell’insostituibilità o - per riprendere i termini di un documento di Giancarlo Bosetti e Alessandro Ovi - dell’indispensabilità di un servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale.
Le ragioni del sistema misto.
Gli amici che hanno dato vita ad Infocivica sino a qualche tempo avevano la sensazione di trovarsi in una posizione quasi solitaria con pochi amici riuniti intorno all’UCSI (attorno al cattolico Emilio Rossi), all’Isimm (attorno al socialista Enrico Manca) e a pochi altri organismi, a combattere una posizione che pareva allora dominante e che considerava ineluttabile la privatizzazione della Rai e nel futuro il passaggio dal sistema misto che ha caratterizzato l’Europa negli ultimi decenni ad un sistema “tutto privato”, sia pure temperato dal rispetto di rigorosi vincoli antitrust e da regole a tutela del pluralismo simile a quello che gli Stati Uniti avevano promosso sin dagli anni Venti.
La nazionalizzazione della BBC.
Negli anni Venti il sistema “tutto privato” statunitense venne criticato da alcuni parlamentari inglesi riuniti in due Commissioni parlamentari di inchiesta sulla radiodiffusione- insediatesi nel 1923 (Commissione Sykes) e nel 1926 (Commissione Selsdon) - che preconizzarono allora la trasformazione della BBC da Company privata in Corporation pubblica finanziata esclusivamente dal canone pagato dai cittadini britannici e che avrebbe dovuto rinunciare alla pubblicità per garantirle la sua autonomia da qualsiasi pressioni provenienti da gruppi commerciali. Questo sistema è rimasto sostanzialmente inalterato e a partire dal 1 gennaio 2007 entra in vigore la nuova Royal Charter approvata dal Governo britannico che fissa missioni e confini del nuovo servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale oltre la Manica, e che rimarrà in vigore sino al 2016.
LA MISSIONE DI INFOCIVICA NELLA FASE ATTUALE.
Oggi dunque Infocivica si deve sentire meno sola e deve battersi perché anche in Italia il servizio pubblico trovi la propria via nazionale al “tutto digitale” e veda nella convergenza multimediale l’occasione non per aggravare ulteriormente la divisione fra i propri cittadini ma per realizzare una nuova coesione sociale, facendo del servizio pubblico la voce degli abbonati al canone e uno strumento per il dialogo con le istituzione e per la formazione e l’educazione civica.
Il fatto che oggi non ci sentiamo più così soli non deve affatto mutare il nostro atteggiamento di neutralità assoluta nei confronti del quadro politico, qualunque esso sia: nessun collateralismo ma assoluto spirito da civil servant nella profusione di energie tese alla realizzazione del progetto del canale Infocivica e dei servizi ad esso connessi così come li avevamo individuati ad Amalfi. Rimaniamo convinti che il canale Infocivica possa trovare il proprio spazio nella fase attuale di riconfigurazione editoriale dell’offerta del servizio pubblico nell’universo “tutto digitale” prossimo venturo e di fronte alle istanze e richieste di informazione e di formazione dei cittadini provenienti dall’Unione Europea e dagli Enti Locali, come ben evidenziato nel nostro Manifesto programmatico.
L’Appello di Infocivica vuole essere un invito alla classe dirigente di questo Paese a mettere al centro delle riforme non la mera questione del futuro della Rai, quanto di un importante architrave che deve accompagnare lo sviluppo della nuova società dell’informazione e della conoscenza, nell’epoca della globalizzazione ma anche della rinascita dei conflitti etnici, religiosi, e dei paventati scontri di civiltà che evidentemente richiedono un nuovo approccio alle problematiche legate alla soluzione della “questione nazionale”. Un architrave che va presieduto e governato in modo del tutto inedito rispetto all’articolazione tradizionale centro-periferia, direzione generale-sedi regionali, ma che probabilmente deve investire una molteplicità di imprese, di soggetti e di ambiti, in grado di soddisfare coerentemente alle nuove missioni che verranno individuate ed ai finanziamenti che verranno loro assegnati – le esigenze di una pluralità di organismi locali, regionali, nazionali ed europei.
Infocivica può favorire - in questa nuova Babele elettronica - la ricerca di alcuni punti di convergenza fra i diversi ambiti istituzionali nella definizione delle missioni, della Governance e del finanziamento delle attività che verranno realizzate da questa molteplicità di soggetti, ma che deve avere certamente nel riassetto della Rai la spinta iniziale, un autentico ruolo di apripista, come quello esercitato nel Regno Unito dalla BBC. Sotto questo profilo Infocivica potrà esercitare anche una funzione di documentazione sulle migliori esperienze avviate in Europa in questa direzione e perché no? esercitare un’azione di sensibilizzazione e di lobbying nei confronti dei decisori politici, a favore del consolidamento del dialogo e dell’informazione fra cittadini e istituzioni, e laddove necessario, alla stregua di un’associazione di tutela dei consumatori, non trascurare la denuncia nei confronti di qualsiasi attività che sia contraria alla missione di servizio pubblico o comunque nociva alle finalità da esso perseguite.
IL DDL GENTILONI. VIRTÙ E VIZI DEL NUOVO APPROCCIO AL SISTEMA ITALIANO DELLE COMUNICAZIONI.
Rispetto a quanto annunciato dal nuovo Governo, cerchiamo di indicare e salutare i punti di convergenza, senza peraltro sottacere i punti di dissenso e le zone grigie che meritano senza dubbio ulteriori approfondimenti anche in sede tecnica come quelli avviati ad esempio dall’Isimm con alcuni giuristi sul documento Petruccioli e che sono proseguiti in maniera assai convincente nel documento proposto dagli amici di Reset e di Tecnology Review. Partiamo dalla visione d’insieme contenuta nel DDL Gentiloni. Ci pare vi sia una maggiore consapevolezza dei vizi strutturali del sistema televisivo italiano, dal nanismo e dall’esiguità delle risorse che riesce complessivamente a raccogliere, del fatto che l’avvento di nuove piattaforme più del digitale terrestre lo renda sempre meno protetto e che occorra fare i conti con nuove dimensioni d’impresa in un mercato globale che rischia a termine di emarginare soggetti che operano unicamente in ambito nazionale.
Per evitare qualsiasi fraintendimento sgombriamo due equivoci che potrebbero sorgere da una lettura errata che vedrebbe in questa difesa del servizio pubblico una difesa dello status quo.
Primo equivoco da sgombrare. Non si tratta di mantenere l’attuale assetto della Rai mai riformato dal 1975 e di adattarlo sic et simpliciter al nuovo comparto multimediale.
Vanno semmai capite innanzitutto le ragioni che ne hanno pervertito nel tempo le ambizioni (ad esempio il mancato ruolo delle Regioni) e snaturato le finalità (i concetti di partecipazione e di accesso interpretati da un lato in senso di estensione della lottizzazione, dall’altro di conventio ad exludendum dei partiti dell’arco costituzionale), cercando poi di identificare quanto poi di quel gran progetto possa essere oggi – depurato da questi pervertimenti – essere ripreso, adattato al nuovo contesto caratterizzato non più tendenzialmente dalla dittatura dell’Auditel e degli ascolti, quanto dal primato della diretta e del tempo reale da un lato (per la tv post-generalista) al ritmo di una comunità precisa di riferimento (non solo la comunità nazionale, ma anche una comunità locale o un continente, un’area geografica, al limite la comunità – mondo), dall’altro (per i prodotti a utilità ripetuta e soprattutto per quelli tematici e di nicchia) caratterizzato da nuovi criteri di visibilità, promozione, ma anche classificazione e indicizzazione per scaricare a richiesta dalla Rete la tua dieta mediatica.
Si tratta di capire ad esempio quanto una Community in rete o una Telestreet possano entrare a far parte legittimamente del NUOVO TERRITORIO DEL SERVIZIO PUBBLICO MULTIMEDIALE ovvero di un’area composita e non monolitica in grado di declinare non più le classiche offerte radiotelevisive verticali veicolate attraverso palinsesti lineari, ma di presiedere in maniera oculata tutte le piattaforme o le potenzialità anche di interazione con i cittadini, qualunque essi siano, dovunque essi risiedano, ripensando profondamente il concetto di coesione sociale e soprattutto individuando NUOVE ZONE DI INTERVENTO PRIORITARIE quali ad esempio l’alfabetizzazione civica e l’integrazione delle popolazioni immigrate, e combattere contemporaneamente utilizzi perversi di questi nuovi strumenti di informazione e comunicazione per arricchire e non per restringere l’orizzonte dei cittadini (ad esempio oscurando emittenti antisemite o che spingono alla guerra fra civiltà ecc.).
Sotto questo profilo la presenza della BBC multimediale a cominciare dal proprio sito costituisce nuovamente un faro, un punto di partenza come lo sono stati John Reith e la radio britannica dagli anni Venti in poi. Invito dunque tutti a leggere il Libro Verde del Governo Costruire un Regno Unito digitale per capire quali sono le responsabilità della politica e di chi presiede la cosa pubblica nell’elaborazione di un programma di medio termine che investe il ruolo del servizio pubblico nella società dell’informazione
Secondo equivoco da sgombrare. Va ripensato il ruolo della Rai o se volete della nuova Rai Multimediale nella società dell’informazione nel senso che la sua auspicabile centralità non può significare monopolio assoluto dell’azienda nel presidio delle missioni e delle attività editoriali di servizio pubblico in questo scenario molto più composito.
L’esperienza britannica con Channel Four, quella duale fra polo federale (ARD) e polo nazionale (ZDF) in Germania, fra RTVE e Autonomicas in Spagna, l’esistenza stessa in Francia di un «settore pubblico» (ARTE, i due canali parlamentari dell’Assemblea Nazionale e del Senato della Repubblica, e i due canali internazionali partecipazione mista France 24 e la francofona TV5) distinto dal servizio pubblico France Télévision che non dispone nemmeno dell’integralità del canone, ripartito insieme ad altre società pubbliche (Radio France, INA, SFP, TDF), tutte queste realtà di fanno ritenere che in questo nuovo comparto la Rai non possa pretendere di mantenere una posizione di monopolio nel mercato del servizio pubblico, ma che al contrario vada favorita una situazione di sinergia ma anche di relativa competizione fra più soggetti pubblici o comunque giudicati mission oriented ovvero di pubblica utilità e privi di finalità commerciali profit oriented. E qui va appunto ripensato il ruolo dell’associazionismo, dei Comuni delle Province e delle Regioni, degli stessi Ministeri dell’area del Welfare (istruzione, ricerca e università, lavoro, difesa, interno, protezione civile, turismo e beni culturali), e infine l’apporto dell’Unione Europea ma anche di altri organismi internazionali e delle Nazioni Unite, non solo nella comunicazione istituzionale rivolta ai cittadini e nella loro informazione e istruzione civica, ma in un complesso e variegato campo di interventi di cui vediamo solo in nuce negli attuali siti-vetrina in rete tutte le potenzialità.
Una Rai al centro del servizio pubblico nella società dell’informazione, ma non in posizione di esclusiva, priva di rendite di posizione, in situazione di concorrenza con altri soggetti pubblici nell’assolvimento delle finalità di informazione, educazione e crescita culturale dei cittadini. Un nuovo e composito servizio pubblico che recuperi quello spirito di rivalità e differenziazione positiva che aveva avuto la prima Rete 2 nei confronti della Rete 1 nella seconda metà degli anni Settanta con Massimo Fichera e che moltiplichi in un contesto peraltro del tutto inedito come quello che abbiamo sopradescritto - esperienze come quella di Channel Four al servizio dell’intero sistema-Paese. Va detto che la stessa BBC oggi, nonostante questo indubbio primato a cominciare dal suo sito web, non pretende peraltro di essere l’unico soggetto che risponda a criteri di servizio pubblico nell’universo multimediale.
Terzo equivoco da sgombrare. Allo stesso modo in quest’unico caso simmetricamente, Mediaset non deve detenere una posizione di monopolio nel mercato pubblicitario né Murdoch in quello della televisione a pagamento.
Non dobbiamo insomma arrivare ad un confortevole trio-polio dove ognuno è monopolista nel proprio mercato di riferimento e tende a comprimere investimenti e risorse per beneficiare di comode rendite di posizioni. Semmai vanno incoraggiate aggregazioni fra editori della carta stampata, ma anche fra emittenti locali in nuove syndication in grado di affrontare onerosi investimenti per assicurarsi nuove quote di mercato a fronte di una riduzione delle reti nazionali generaliste e di misure tese a impedire la dittatura della piattaforma di Murdoch nella distribuzione delle reti tematiche.
Questo significa che le frequenze analogiche lasciate da Rete Quattro si associno a quelle del canale musicale dell’Espresso e a quelle de La Sette per dar vita ad un autentico secondo polo commerciale trasmesso sia in tecnologia analogica sia in tecnologia digitale sulle reti terrestri nell’ultima fase prima dello switch off e all’origine insieme ad altri di una seconda piattaforma satellitare complementare all’offerta digitale terrestre (come potrebbe esserlo Freesat promossa da ITV e da altri soggetti nel Regno Unito). Una situazione diversa, ma con uno scenario per quanto riguarda il mercato pubblicitario per certi versi simile a quanto avvenuto nell’ultima fase prima dello switch off in Spagna e che comunque favorirebbe l’aumento delle tariffe pubblicitarie da un lato, la qualità dell’offerta e la riduzione dei costi di abbonamento all’offerta televisiva a pagamento per i consumatori, dall’altro.
· più mercato e più libertà e scelta per i consumatori,
· più servizio e più assistenza ai cittadini
· nessuna rendita di posizione
1. Uscire dalla visione simmetrica del duopolio.
L’attenzione del legislatore e delle forze politiche, anziché concentrarsi sui nuovi obiettivi del servizio pubblico nel sistema misto, sullo sviluppo di nuovi canali tematici e nuovi servizi via cavo e via satellite (equiparati alle reti generaliste ignorando gli appelli generosi di Massimo Fichera e le lodevoli sperimentazioni compiute in Rai dal suo gruppo) si è rivolta prevalentemente a regolamentare il mercato pubblicitario dominato appunto dalle reti generaliste. L’avvio della pay tv nei primi anni Novanta, quando questo nuovo segmento aveva conosciuto significativi successi in Francia e nel Regno Unito passava inosservato: era consentita un’offerta di tre canali terrestri ma impedita l’offerta di un bouquet multicanale sulle nuove piattaforme.
Il deprecabile duopolio nel pollaio generalista si è tradotto in comportamenti del legislatore finalizzati esclusivamente a tutelarlo o a penalizzarlo a seconda dei casi e delle stagioni, senza preoccuparsi, almeno sino alla legge Maccanico approvata oltre due decenni dopo le prime sentenze della Corte Costituzionale, di distinguere – per farmi capire uno un’espressione forzata – il mercato del servizio pubblico dal mercato della televisione commerciale e dal nascente mercato della televisione a pagamento. La simmetria del duopolio insomma nascondeva l’asimmetria profonda delle finalità dei due principali gruppi televisivi italiani, concentrando la partita sul terreno della raccolta pubblicitaria e disincentivando la concessionaria di servizio pubblico ad esplorare nuove finalità pubbliche come se il canone risultasse qualche cosa residuale, destinato progressivamente ad esaurirsi.
Oggi assistiamo ad un’inversione di tendenza. Ma questo vizio di fondo non mi pare sia del tutto scomparso quando Gentiloni afferma di voler superare: “In primo luogo, il duopolio e la concentrazione degli ascolti e delle risorse nelle mani di due soggetti: una situazione che ha anche effetti politici di forte resistenza al cambiamento e all'Innovazione”. Ciò contiene verità sacrosante, ma il DDL Gentiloni mette sullo stesso piano ascolti e risorse raggiunti da soggetti pubblici e privati quasi a voler stabilire che la quota di ascolto della Rai rimasta attorno al 45% sia in qualche modo deplorevole, quando semmai risulta deplorevole il ritardo ventennale accusato nell’offerta multicanale che ha prodotto in Germania prima e oggi nel Regno Unito una frammentazione degli ascolti ma anche una riarticolazione dell’offerta e un più oculato presidio di queste nuove piattaforme e modalità di declinazione dell’offerta televisiva da parte dei servizi pubblici e contemporaneamente un rafforzamento della loro presenza sul territorio non solo in ambito regionale ma anche in ambito locale.
2. Rafforzare non amputare l’offerta di servizio pubblico.
Per questa ragione non ci piace la proposta del cosiddetto disarmo bilanciato: ovvero che una rete analogica sia di Rai sia di Mediaset venga smantellata entro 15 mesi dall’approvazione della nuova Legge cedendo o restituendo allo Stato entro il 2009 le frequenze analogiche di una delle loro tre reti[1].
Potremmo senza alcun dubbio accettare un disarmo sul mercato pubblicitario, ma crediamo che la Rai avrebbe bisogno fino al 2012 di una terza frequenza analogica per consolidare una nuova offerta televisiva educativa, informativa e culturale priva di pubblicità, come avvenuto quando al posto di TF1 il servizio pubblico francese ha potuto avviare la quinta rete educational (oggi France 5) in condominio con la rete culturale Arte. Mentre in Germania nascevano parallelamente una rete per bambini e una rete di documentari e di documentazione politico-parlamentare trasmesse sia in tecnologia analogica sia in digitale per poter raggiungere tutti gli abbonati al canone.
Per quanto riguarda il mercato pubblicitario non siamo ostili per principio alle misure previste ma crediamo che andranno introdotte gradualmente per assicurare un’autentica nuova dinamica del mercato, favorendo un aumento complessivo delle risorse, ovvero la fine di alcuni fenomeni deplorevoli come quelli praticati oggi come il dumping sulle tariffe delle inserzioni.
Il tetto del 45% stabilito sulla raccolta pubblicitaria (oggi Mediaset raccoglie il 66%, mentre TF1 il 50%, ITV il 49%, RTL 46% e Telecinco il 30%) e la diminuzione dell’affollamento pubblicitario (con le telepromozioni che verranno conteggiate nel tetto orario pubblicitario) devono a nostro parere non solo liberare 400-500 milioni di euro di pubblicità come prevedono le stime di Gentiloni. Di fronte a un minore affollamento, Mediaset, ma almeno in una fase di transizione anche la Rai, devono essere incentivate effettivamente ad applicare un aumento delle tariffe e recuperare in tal modo una parte dei volumi del loro fatturato pubblicitario.
Lo stesso giudizio - in parte positivo in parte condizionato dal vizio di fondo che abbiamo appena descritto - riguarda la nuova visione della transizione al digitale e della gestione delle frequenze contenuta nel DDL Gentiloni. Anche in questo caso riteniamo lodevole e serio lo sforzo teso al recuperare da parte dello stato e al riordino di un bene pubblico come quello rappresentato dalle frequenze che metterebbe fine ad un’anomalia tutta italiana. Ma non ci convincono i dispositivi antitrust individuati per il digitale terrestre a regime. Dopo lo switch off previsto nel dicembre 2012, la televisione digitale terrestre disporrà di dodici multiplex a frequenza singola SFN pari a 60 canali nazionali. Ogni operatore potrà disporre al massimo del 20% delle capacità trasmissive, pari a 12 canali. Rai e Mediaset secondo questo provvedimento simmetrico, dovranno cedere le capacità trasmissive eccedenti, a condizioni eque e trasparenti fissate dall’AGCOM.
Perché non consentire al servizio pubblico di disporre di frequenze digitali terrestri per assicurare una sua più capillare presenza in ambito non solo regionale, ma anche provinciale e locale. Perché assegnare i quattro multiplex a frequenza multipla MFN solo all’emittenza privata locale, quando negli altri grandi Paesi europei se non un intero multiplex per lo meno la metà della sua capacità viene assegnata in Francia per assicurare il distacco non solo in ambito regionale ma anche ad un secondo livello in ambito dipartimentale e locale di France 3, in Spagna per incrementare l’offerta delle televisioni pubbliche regionali autonome e persino quella delle televisioni pubbliche esistenti in ambito locale nelle grandi realtà delle nazioni catalana, basca, e galiziana, ma anche in Andalusia.
Non basta creare consorzi per favorire la razionalizzazione dell’emittenza regionale privata e la condivisione delle frequenze. Occorre una chiarificazione del ruolo delle Regioni e degli enti locali, ma soprattutto vanno definiti i nuovi confini multimediali della presenza del servizio pubblico in ambito regionale e locale che dovrebbe essere esplicitata nell’ambito del contratto regionale di servizio previsto dalla Legge Gasparri.
Rispetto alla Legge 66 approvata nel 2001 che apriva la strada al trading delle frequenze, il legislatore, e comunque il documento Ovi Bosetti propone non solo la separazione delle funzioni ma anche la separazione proprietaria tra operatore di rete e fornitore di contenuti, portando a compimento il processo di smantellamento del vecchio modello del broadcaster verticalmente integrato. Ciò concentrerebbe il ruolo della Rai come fornitore di contenuti confermando nelle mani dell’azienda la responsabilità editoriale dei programmi trasmessi e dei nuovi servizi forniti e che dovrebbero essere fruibili attraverso tutte le piattaforme garantendo loro tendenzialmente un accesso universale.
Gentiloni vede con favore l'idea di creare una società delle reti di trasmissione televisiva dove confluiscano le infrastrutture dei vari operatori, ma dice no a qualunque operazione dirigistica e si dice perciò pronto a valutare progetti industriali che vengano dai player televisivi. In un articolo del disegno di legge sulla transizione al digitale vengono favorite le forme di aggregazione consortile per la gestione delle frequenze nella fase di transizione”. Il Ministro si è però detto “contrario a congegnare proposte che vengono dall'alto” e comunque ha sottolineato che per una valutazione dell'ipotesi più compiuta è necessario attendere qualcosa di concreto da parte degli operatori: “Bisogna valutare i progetti industriali - ha concluso - quando verranno avanti”.
Il documento di Ovi contiene proposte in linea con la filosofia delle Direttive sulle comunicazioni elettroniche dell’Unione Europea. Lo spacchettamento del modello del broadcaster verticalmente integrato non deve significare peraltro la fine del presidio pubblico degli impianti come avrebbe significato la vendita di Rai Way alla società americana qualora fosse stata consentita dal Governo nella legislatura precedente.Tornare al controllo pubblico delle frequenze significa distinguere le missioni pubbliche dell’operatore di rete dalle occasioni di business che possono essere sviluppate a partire dallo sfruttamento delle torri e degli impianti per nuove piattaforme.
“Oltre ai temi classici del servizio pubblico, secondo il Ministro Gentiloni - occorre individuare temi nuovi, partendo dal chiarimento del rapporto tra free e pay, quindi sull'incrocio tra la gratuità e le platee generaliste, e il ruolo del servizio pubblico come uno dei fattori trainanti per orientare l'Innovazione tecnologica”. Il servizio pubblico radiotelevisivo dovrà essere tendenzialmente fruibile attraverso il maggior numero di modalità di trasmissione e di accesso che l’evoluzione tecnica metterà a disposizione dei cittadini. È bene impedire, infatti, che le trasformazioni legate alle nuove tecnologie digitali determinino disparità (socio-culturali o di altra natura) nelle reali possibilità di fruizione dei contenuti da parte dei cittadini.
Questo approccio è oggetto di ulteriori approfondimenti da parte di Giancarlo Bosetti e Alessandro Ovi: “Privilegiare il nucleo effettivo della funzione di servizio pubblico, rappresentato dalla fornitura di contenuti specifici, potrebbe suggerire la scelta di separare, non solo in termini di società ma anche in termini di proprietà, la società che gestisce torri e impianti di distribuzione dalla società che produce e/o offre i contenuti. Il modello dell’operatore verticalmente integrato (contenuti-rete) sembra essere sempre più divergente rispetto a quello del produttore di contenuti che diffonde i propri contenuti su tutte le piattaforme. È necessario dunque creare le condizioni in base alle quali le reti ed i contenuti siano separati dal punto di vista della proprietà e rispondano a logiche industriali diverse: la massimizzazione della capacità trasmissiva per gli operatori di rete e la diffusione multipiattaforma per i produttori di contenuti”.
Questa ipotesi rende di nuovo di attualità l’ipotesi di un’unica società proprietaria delle torri e degli impianti di trasmissione e - connessa ad essa - l’ipotesi di uno scorporo della rete di telefonia fissa dal gruppo Telecom Italia.
Nel Regno Unito si distingue la proprietà degli impianti e dei siti sui quali sono edificati che rimane gelosamente in un unico soggetto posto sotto il controllo del Ministero delle Difesa (così come pubblica rimane la gestione e pianificazione delle frequenze) dallo sfruttamento della rete stessa da parte di più operatori in concorrenza tra di loro. Un’unica rete, tanti fornitori di servizi in concorrenza tra di loro a pari condizioni di accesso e sfruttamento degli impianti.
Il modello britannico era stato caldeggiato in Italia da Confindustria favorevole alla costruzione di un’unica rete UMTS e che avrebbe esercitato senza dubbio una razionalizzazione dei siti e un migliore impatto sul territorio a tutela della salute dei cittadini contro gli effetti nocivi derivanti dall’irradiazione di onde elettromagnetiche.
La Rai negli anni Ottanta aveva respinto il tentativo di cedere le proprie torri al gestore delle telecomunicazioni, memore degli interessi divergenti che ne sarebbero potuti derivare. Respingendo l’ipotesi di una cessione degli impianti Rai alla Stet caldeggiata allora dal Presidente dell’IRI e dallo stesso Alessandro Ovi, e consapevoli del ritardo tecnologico accumulato per le dissennate decisioni prese contro lo sviluppo delle reti via cavo nel decennio precedente, taluni si erano dichiarati favorevoli allo sviluppo di un Agenzia nazionale per lo Sviluppo delle Reti e delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (poi divenuto una proposta di legge nel 1992). Una tale Agenzia nazionale avrebbe dovuto pianificare lo sviluppo delle nuove piattaforme integrandolo con la nascita di una Società Italiana per la Telediffusione che avrebbe dovuto rimanere controllata in maggioranza dalla Rai ma che avrebbe potuto avere l’apporto di privati per lo sviluppo di nuove attività di profitto. In ogni caso non si prevedeva la vendita a privati di un asset strategico come gli impianti della Rai - e quindi a quella di Rai Way - a soggetti privati date le delicate missioni di servizio pubblico e gli obblighi di accesso universale che ne derivano.
A 15-20 anni di distanza sentiamo ancora davvero la mancanza di una cabina di regia pubblica: nello sviluppo del comparto multimediale. E’ mancata in questo caso, a contrario di quanto avvenuto negli anni Trenta, una sorta di Iri della multimedialità in grado di traghettare le punte tecnologiche del Paese in questo nuovo decisivo comparto. L’idea di una società unica rimane una prospettiva ancora percorribile? Che reale interesse vi può essere al possesso della rete quanto tanto più se essa è unica, dovrà assicurare l’accesso a terzi senza infrangere le rigorose regole comunitarie in materia di tutela della concorrenza e contemporaneamente garantire l’accesso di tutti i cittadini senza discriminazioni ad un’offerta di servizio a carattere universale con notevoli costi per assicurare l’illuminazione capillare dei segnali su di essa veicolati? Non siamo proprio sicuri che quest’idea sia davvero percorribile ma in ogni caso - laddove essa fosse esplorata nel concepire in particolare la configurazione delle reti digitali terrestri - dovrebbe naturalmente essere adattata all’interno del nuovo comparto multimediale e multipiattaforma.
IL FUTURO ASSETTO DEL SERVIZIO PUBBLICO E IL SUO FINANZIAMENTO
Anche qui prima di esaminare le proposte di Gentiloni, occorre forse ricordare alcuni processi storici che hanno caratterizzato in Europa la riforma del servizio pubblico negli anni Sessanta e Settanta
Fatta salva l’eccezione britannica di autentica autonomia del servizio pubblico sia dal governo e dai poteri pubblici sia dalle pressioni dei gruppi commerciali (che portano alla trasformazione della prima Company commerciale in Corporation Pubblica rinunciando al modello tutto privato statunitense) i soggetti pubblici continentali hanno conosciuto un difficile processo di autonomia dal potere degli esecutivi. Molto complessa sotto questo profilo risulterà anche la vicenda tedesca nel processo di affrancamento dal potere esercitato dalle Forze anglo-americane di occupazione nella Germania Federale del dopoguerra che impediscono la nascita di un servizio pubblico su scala nazionale sino agli anni Sessanta.
La Francia spezza solo nel 1974 il cordone ombelicale con il Ministero dell’Informazione dopo l’uscita di scena di De Gaulle con la chiusura dell’ORTF e la nascita di tre società pubbliche indipendenti e in forte concorrenza diretta tra di loro sugli ascolti almeno sino alla privatizzazione della prima nel 1986 e alla nascita di un sistema misto che spingerà ben più tardi alla fine degli anni Novanta a raccoglierle sotto un’unica Holding France Télévision. Con la nascita delle Authorities nel 1982 i presidenti saranno anch’essi nominati dai nuovi saggi a loro volta eletti a rotazione dalle alte cariche dello Stato francese.
La Spagna, pur spezzando con la fine del franchismo il legame diretto con l’esecutivo e con la casta militare, negli ultimi tre decenni non riesce ad affrancare completamente il servizio pubblico dall’esecutivo in quanto in assenza di canone esso dipende sempre di più dal ripiano dei debiti da parte di una filiale del ministero spagnolo delle finanze. In Germania si insediano nei Laender degli organismi compositi molto rappresentativi non solo dei partiti ma anche delle forze economiche sociali e religiose del Paese e in ogni caso la forte dimensione regionale al contrario della Francia gollista e dell’Italia democristiana, costituisce un antidoto allo strapotere di una singola area politica.
In Italia con la Legge di Riforma del 1975 si decide per il mantenimento dell’unitarietà del servizio pubblico all’interno di un’unica società ma in seno alla Rai si diversificano le reti e le testate, creando una diarchia fra esecutivo che continua a nominare il direttore generale democristiano e parlamento che acquista sovranità nell’attività di indirizzo e vigilanza nominando il consiglio di amministrazione dell’azienda a capo del quale si insedia un rappresentante laico del partito socialista. Ne deriva un quadro spartitorio non proprio esaltante nel medio termine quando l’assetto si rivela inefficiente nel far fronte alla concorrenza di un supergruppo televisivo commerciale, ma certamente incommensurabilmente meno “dittatoriale” del latifondo precedente.
Un esperimento che almeno nella sua prima fase con Andrea Barbato e Massimo Fichera, contribuisce ad allargare il pluralismo, apre a nuovi settori di sperimentazione e a nuove voci che non avevano diritto di espressione nelle gestioni precedenti, creando come in Francia una certa benefica concorrenza interna al monopolio soprattutto con le seconde reti meno ufficiali e più irriverenti nei confronti dei pubblici poteri. Si tratta certo di una stagione in Italia piuttosto breve che verrà normalizzata con la blindatura dei partiti nel controllo delle testate dopo l’ingresso nel 1986del partito comunista e la nazionalizzazione della terza rete nata a vocazione federale con forte progettualità su scala regionale.
Questa stagione finisce quando nasce la perfetta simmetria e inizia la dittatura dell’Auditel e il processo di omologazione fra rete pubbliche e emittenti commerciali. La Rai diventa uno strano ircocervo metà servizio e metà impresa, un’anatra zoppa che non può competere pienamente sul terreno commerciale né continuare ad esprimere le sue finalità di servizio pubblico perché esse cozzano con le logiche della competizione sugli ascolti. Vivrà praticamente due decenni senza ridefinire la propria fisionomia e governance.
Da questa situazione dovrà ripartire chi voglia autenticamente riformare il servizio pubblico a trent’anni dall’ultima legge di riforma.
Il nuovo governo sembra cosciente della necessità di rompere questo monstrum. L'ipotesi allo studio per una nuova configurazione della Rai si baserà secondo quanto annunciato da Gentiloni sulla separazione societaria tra attività finanziate dal canone e attività finanziate dalla pubblicità, “…confermando però l'unità aziendale. La Rai sarà concentrata su due reti generaliste di servizio pubblico finanziate dal canone e con poca pubblicità e programmi di elevata qualità e da una rete commerciale finanziata dalla pubblicità con programmi commerciali nella quale potrebbero entrare soggetti privati.
Come chiarisce lo stesso Gentiloni “L'ibrido tra le fonti di finanziamento della Rai, per metà rappresentate dal canone e per metà dalla pubblicità: un meccanismo che spinge all'omologazione con la Tv commerciale. Paletto essenziale, da questo punto di vista, è la separazione tra le attività finanziate dal canone e quelle sostenute dagli introiti pubblicitari”. Si prevede – chiarifica il Ministro nell’intervista rilasciata al supplemento economico del Corriere della Sera - un adeguamento del canone (oggi a meno di 100 euro a fronte dei 204 in Germania e Svezia e 180 in Gran Bretagna) pari al tasso di inflazione e un maggiore impegno contro l’evasione oltre a contributi ad hoc per garantire un ruolo di traino del servizio pubblico nell’agevolare la migrazione dall’analogico al digitale entro la nuova data prevista.
Per parte nostra abbiamo ricordato prima che, prima ancora dello switch off, sarà necessaria una riarticolazione dell’offerta di servizio pubblico non solo a favore di nuovi canali educativi e informativi di servizio pubblico, ma anche una più ricca e capillare presenza del servizio pubblico sul territorio riprendendo uno dei punti all’origine della Riforma di trent’anni or sono. Solo attraverso questo rafforzamento rivolto a tutti gli italiani e non solo alle famiglie digitali, riteniamo che sarà forse possibile procedere ad una progressiva riduzione della pubblicità e ad un incremento del canone e dei contributi pubblici che altrimenti rimarrà del tutto improponibile. Ci vuole insomma non solo in materia di raccolta pubblicitaria ma anche sul terreno dell’offerta una scossa importante che segni davvero un’inversione di tendenza a favore della qualità ma non a scapito degli ascolti e che sia effettivamente in grado di accompagnare tutte le famiglie verso l’universo digitale e il comparto multimediale sfruttando al massimo le tecnologie esistenti a cominciare dal Televideo e da tutti quegli strumenti che consentono già oggi all’utente di interagire con il medium televisivo.
Secondo Gentiloni L'ultima, ma forse più grave anomalia del sistema italiano, è “il rapporto tra Tv pubblica e politica, che esiste ovunque ma in Italia è abnorme e non più sopportabile”. Tutti noi siamo d’accordo da anni sulla necessità di un allontanamento dei partiti dalla gestione dell’azienda per garantire la massima autonomia e indipendenza dal Governo e dalla politica. Per questa ragione è stata avanzata sin dai primi anni Novanta l’idea di una Fondazione o comunque di un organo in grado non solo di fungere da intercapedine fra l’indirizzo politico definito dal contratto di servizio e la gestione operativa, ma in qualche modo - aggiungeremmo - di diventare la voce degli abbonati e di verificare la congruità della gestione dell’azienda con gli obiettivi della nuova missione di servizio pubblico definiti nel contratto di servizio. Sotto questo profilo risulta particolarmente istruttivo quanto deciso dal Governo nel Regno Unito con l’insediamento a capo della BBC a partire dal 2007, in sostituzione del Board of Governors, di un BBC Trust ossia di un Consiglio dei Fiduciari investito di questi nuovi poteri di verifica e di controllo della gestione operativa del servizio pubblico d’Oltre Manica oggi alle prese con un lungo processo di decentramento delle proprie strutture.
Innanzitutto vorremmo precisare la nostra proposta relativamente al ruolo di indirizzo che la politica attraverso il Parlamento dovrebbe ritrovare ed esplicitarsi nella discussione di documenti strategici simili al Green Paper all’origine della nuova Royal Charter della BBC in vigore per un decennio dal 1 gennaio prossimo. La funzione del nuovo Consiglio eviterebbe di sovrapporsi con quella del Direttore Generale e dei manager responsabili della gestione operativa dell’azienda, conferirebbe al Board una funzione di vigilanza e di riporto a scadenza semestrale dell’operato dell’azienda al Parlamento e all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ovvero ad una nuova Commissione Parlamentare di Indirizzo che dovrebbe vigilare come l’AGCOM sull’intero comparto delle comunicazioni elettroniche a distanza e sul rispetto del pluralismo dei contenuti veicolati qualunque sia la natura dell’editore e della piattaforma attraverso i quali sono veicolati.
Naturalmente molto delicata diventa a questo punto la definizione dei criteri secondo cui andranno individuati i componenti della Fondazione a capo della nuova Rai, organo in grado di rappresentare il paese e la cittadinanza nella sua totalità e che dovrà essere dotato delle sopra citate funzioni di indirizzo e controllo oltre che della nomina dei vertici. Concordiamo con il documento di Giancarlo Bosetti e Alessandro Ovi quando scrivono “Poiché la funzione di servizio pubblico deve essere protetta da ingerenze non pertinenti (politiche, economiche e di altro genere), la soluzione proposta è una Fondazione creata ad hoc, con organi costituiti da persone selezionate con criteri mediante i quali ognuna di esse possa rappresentare il Paese nella sua complessità”. Ma divergiamo quando si entra nello specifico relativo alle modalità di nomina dei componenti della Fondazione.
Sotto questo profilo francamente non ci convincono le due soluzioni sin qui proposte , sia quella “alla spagnola” che ho sentito sostenere da Gentiloni che prevede la modalità di nomina parlamentare a maggioranza bipartisan (oltre i 2/3 del Parlamento) sia quella presentata dal gruppo di Ovi con organi costituiti da persone selezionate pubblicamente attraverso una Commissione terza nominata dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – che ricordiamolo nei criteri di nomina dei suoi Commissari e del suo Presidente rimane diretta espressione della politica e dei partiti.
La prima soluzione non ci piace perché lascia sostanzialmente le cose inalterate o nella peggiore ipotesi riprende i vizi di esperienze precedenti costringendo le forze politiche bipolari a defatiganti compromessi senza peraltro incentivare i destinatari il cui mandato proprio perché figlio di compromessi può apparire annacquato o comunque soggetto a troppi vincoli (si pensi al clamoroso rifiuto di Paolo Mieli di accedere alla Presidenza del Consiglio di Amministrazione della Rai nella scorsa legislatura su indicazione dei Presidenti di Camera e Senato).
La seconda soluzione non appare convincente in quanto restituisce alla politica (sia pure in maniera camuffata e mediata da una Commissione) un potere enorme assegnando ad un unico organismo l’AGCOM - nominato peraltro dal Parlamento secondo criteri partitocratici simili a quelli previsti dalla Gasparri per la nomina dell’attuale CdA Rai - un compito specifico di enorme e delicatissima portata. L’AGCOM – mediante la nomina dei componenti della Fondazione poi formalizzata dal Ministro delle Comunicazioni – dovrebbe in effetti sovrintendere alla vigilanza sull’operato del servizio pubblico, quando invece essa è chiamato istituzionalmente e regolare l’intero sistema delle comunicazioni e dovrebbe semmai misurare l’impatto di mercato dell’operato del servizio pubblico.
Va ricordato che il Governo britannico ha deciso di non seguire le raccomandazioni dell’OFCOM che aveva suggerito la creazione di una nuova figura , posta sotto la propria vigilanza, il Public Broadcasting Publisher[2] incaricato di distribuire prodotti britannici originali e di alta qualità attraverso reti a larga banda, reti televisive digitali terrestri e altre piattaforme per le comunicazioni mobili.
Il nuovo Consiglio dei Fiduciari della BBC è interessante come voce dei cittadini e come organo fiduciario di verifica dell’operato dell’azienda e della congruità dell’utilizzo dei fondi pubblici con le missioni definite dalla Royal Charter ma non può certo fungere da esempio per un Paese che non ha conosciuto una rivoluzione liberale come il Regno Unito dove l’esecutivo verrebbe del tutto screditato se non nominasse persone di assoluta indipendenza e provata fama.
Difficile dunque adottare una soluzione all’inglese in Italia. Il Parlamento sotto questo profilo in una democrazia più debole ed più giovane come quella italiana, rappresenta senza dubbio un ruolo di rappresentanza del volere di tutti gli elettori e cittadini e non solo di quelli che hanno votato per i partiti o a maggior ragione per le coalizioni di partiti che hanno assicurato l’insediamento di un determinato esecutivo. Semmai possiamo dire che il Parlamento non basta non è sufficientemente rappresentativo come dimostra l’esperienza della nomina dei membri dell’Autorità italiana per le Comunicazioni che riproducono in una sorta di mini-parlamentino interno i rapporti di forza esistenti in quello autentico. Il che impedisce di fare dell’Autorità il grande elettore del vertice della Rai, a differenza del caso francese dove i membri del Conseil Supérieur de l’Audiovisuel sono nominati a rotazione non creando necessariamente omogeneità con la maggioranza presidenziale o in caso di coabitazione con la maggioranza parlamentare esistente.
Alcune funzioni storicamente esercitate dal CNEL potrebbero servire da spunto per adattare al quadro italiano parte dei principi utilizzati per la nomina degli organismi di vigilanza dei Laender in Germania. Un federalismo spinto dovrebbe favorire la nascita di veri e propri Assessorati regionali alle comunicazioni, la nascita di commissioni consiliari di vigilanza sulle comunicazioni regionali e la trasformazione dei Corecom in Autorità Regionali.
Sul piano nazionale la Commissione Parlamentare di vigilanza dovrebbe applicarsi all’intero sistema delle comunicazioni e le due Authorities Antitrust e Agcom esercitare la tutela della concorrenza e la regolazione del sistema delle comunicazioni. Il ruolo dell’organismo a capo della Rai (Fondazione Consiglio di Fiduciari, Voce degli abbonati al canone), qualunque sia il suo criterio di nomina, dovrebbe in ogni caso essere distinto anche sotto il profilo logistico da quello della Direzione Generale di cui diverrebbe in qualche modo una controparte, verificandone periodicamente l’operato e la congruità con la mission definita nel programma. In ogni caso va spezzata la diarchia e schizofrenia attuale.
Fatte queste osservazioni, possiamo dire che il contributo di Giancarlo Bosetti e di Alessandro Ovi contenga alcune osservazioni pienamente condivisibili. Penso all’idea “che la durata degli organi societari della Fondazione sia al massimo di cinque anni e comunque a “scavalco” di ogni legislatura”. Riteniamo altresì importante il contributo dato sugli indirizzi che dovranno essere emessi dalla Fondazione[3] e sul fatto che una volta verificata l’aderenza alla funzione di servizio pubblico[4], essa dovrà essere messa successivamente a confronto con l’impatto che si genera sul mercato[5] e che su quest’ultimo terreno risulta invece importante il ruolo dell’Autorità.
Come chiarisce il documento “La Fondazione è responsabile della verifica di aderenza alla funzione di servizio pubblico, mentre l’analisi di impatto sul mercato potrebbe essere condotta dall’AGCOM. Per quanto ci riguarda in ogni caso riteniamo che Governo e Parlamento attraverso la redazione e approvazione di un Documento di legislatura che fissi i confini del contratto di servizio e quindi dell’impegno del servizio pubblico nell’assolvimento di determinate missioni come contropartita del canone universalmente percepito.
Il Governo e il Parlamento devono fare certo un passo indietro rinunciando definitivamente ad interferire nella gestione interna del servizio pubblico, ma essi devono contemporaneamente riuscire a fare un passo in avanti attraverso una nuova Riforma in grado di conferire un indirizzo strategico alla Rai adeguato alle nuove sfide tecnologiche e in grado di fare i conti con una società italiana in grande trasformazione e soprattutto di ripensare la propria funzione di coesione sociale nella società dell’informazione.
4. Criteri possibili per la nomina del Comitato dei Garanti
Per parte nostra scarteremmo le due ipotesi suggerite da Gentiloni e dal documento di Bosetti e Ovi, dovendo per altro giudicare naturalmente improponibile in Italia una soluzione all’inglese di nomina da parte del Governo del Consiglio dei Fiduciari o della Fondazione a capo della Rai come avviene nel Regno Unito, modalità che nel contesto italiano ci porterebbe indietro di un trentennio sottraendo al Parlamento il controllo sull’azienda per restituirlo all’esecutivo.
Per questa ragione proponiamo una soluzione più simile a quella adottata in Germania che veda associati al destino del servizio pubblico non solo il mondo politico, ma anche quello delle imprese e dei sindacati, delle confessioni religiosi e della ricerca scientifica che unitamente a personalità indicate dal Presidente della Repubblica, dal Parlamento e dalle Regioni, dovrà individuare il Comitato di garanti a capo della Fondazione composto da pochi soggetti portatori di rilevanti valori sociali e culturali. Il Comitato di garanti della Fondazione nominerà al suo interno un Presidente e un Segretario generale.
I principi a cui la Fondazione del servizio pubblico radiotelevisivo dovrà ispirarsi saranno definiti in una "Magna Charta", un documento parlamentare di valenza costituzionale da approvare con maggioranza qualificata, che avrebbe come oltre Manica una scadenza decennale e sovrintenderebbe al contratto di servizio.
La Fondazione risponderà al Parlamento della coerente realizzazione dei principi contenuti nella Magna Charta. Alla Fondazione farà capo una holding, a cui spetterà la gestione del servizio pubblico radiotelevisivo e sarà retta da un Consiglio di amministrazione nominato dal Comitato di garanti della Fondazione stessa. Il canone sarà intestato alla Fondazione. La holding può agire come unica società o articolarsi in sub-holding.
Nella ipotesi ora descritta si conseguirebbe l'obiettivo di separare nettamente l'indirizzo strategico, che rimarrebbe al Parlamento attraverso l’approvazione della Magna Charta e della cui attuazione sarebbe garante la Fondazione, dalla gestione, cioè dalla holding che del suo operato risponde alla Fondazione stessa. La Fondazione individua attraverso un contratto di servizio gli obblighi specifici di servizio pubblico che devono essere assolti dalla holding ed in relazione ai quali le conferisce il canone, verificando periodicamente che l'attività della holding sia rispondente agli obiettivi fissati nel contratto di servizio.
Conclusioni. Il futuro multimediale ad accesso universale: la televisione via Internet
Vorremmo infine sottolineare un altro aspetto importante annunciato dal Ministro relativo al futuro e in particolare alla IPTV ovvero alla televisione veicolata attraverso Internet. Per evitare all’origine il formarsi di posizioni di monopolio sulla piattaforma Internet si prevede la parità di accesso alla rete per tutti i fornitori di contenuti via Internet.
La nuova normativa impone a Telecom Italia, in quanto soggetto notificato come detentore di un significativo potere di mercato, l’obbligo di offrire l’accesso alla larga banda a tutti gli operatori titolari di autorizzazione generale, ai fini della fornitura del servizio televisivo e comunque la distribuzione di contenuti multimediali in linea. . Sarà l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni a stabilire i criteri per una formulazione trasparente e non discriminatoria di tale offerta da parte di Telecom Italia.
Rimane il fatto che la penetrazione della banda larga in Italia è inferiore alla media europea e che occorreranno forti investimenti per le reti di nuova generazione a banda ultra larga. Non è ancora chiaro chi farà questi investimenti e chi li deciderà. Un nuovo soggetto pubblico o una nuova Agenzia a partecipazione pubblica? Oppure solo le imprese di mercato? Qualunque sia lo scenario, la separazione ipotizzata da Telecom Italia fra la rete d’accesso e i servizi di telecomunicazione sarebbe positiva per garantire parità d’accesso a tutti i competitori. Si dovrà infine pensare anche al wireless a larga banda. L’alternativa alla rete fissa sarà il Wimax, la rete via radio a banda larga in grado di coprire i centri urbani come le aree più remote usando frequenze ancora utilizzate dal Ministero della Difesa.
Per un New Deal della Comunicazione. Stato e mercato a quasi mezzo secolo dal primo centro-sinistra
Anche qui il compito del legislatore è arduo. Ma prima ancora che possa intervenire con soluzioni efficaci, le riforme di sistema vanno preparate con cura dalla politica in collaborazione con tecnici di elevato profilo.
Tornare a riflettere sul rapporto fra Stato e Mercato può sembrare un tuffo indietro nel tempo di quasi 50 anni. Di fronte alla globalizzazione e ad altri effetti di questo avvio del nuovo Millennio, proprio perché si chiede alla politica di favorire l’uscita definitiva dagli ultimi mercati protetti e il perfezionamento di certi lunghi e defatiganti processi di liberalizzazione (dagli ordini professionali al valore legale dei titoli di studio), si deve al contempo promuovere un nuovo limitato, oculato ma non per questo meno importante e decisivo, intervento pubblico nella società dell’informazione e delle reti della conoscenza.
La ricostruzione di un Cantiere per il Paese passa attraverso la riqualificazione della scuola, della sanità, dei trasporti e dei servizi, la realizzazione di nuove forme di eccellenza e di valorizzazione dei saperi e dei meriti, attraverso un Nuovo Corso capace di riprendere lo spirito riformista del primo centro-sinistra attraverso la ricostruzione di un nuovo Welfare della Comunicazione, uno Stato sociale intelligente che garantisca a tutti i cittadini l’accesso ai nuovi linguaggi e saperi.
La ridefinizione del ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo nel nuovo comparto multimediale è un passaggio chiave di questo New Deal e rappresenta quella che un tempo si chiamava riforma di struttura.
[2]L’OFCOM sostiene che la nuova figura del Public Service Publisher (PSP), cioè l’Editore di Servizio Pubblico, grazie alle nuove infrastrutture tecnologiche, sarebbe in grado di distribuire contenuti e programmi di servizio pubblico destinati alle diverse piattaforme digitali e alle nuove piattaforme a banda larga, fornendo contemporaneamente servizi multimediali di prossimità destinati alle comunità presenti sul territorio Questa proposta ha suscitato l’immediata reazione delle emittenti di servizio pubblico, in particolare quella della bbc, ostile a qualsiasi forma di messa all’incanto o frammentazione del canone in una miriade di soggetti, a prescindere dalla loro natura di broadcaster pubblici o di semplici editori/fornitori di contenuti per il servizio pubblico.