La questione dell’identificazione della diversità culturale offerta dal servizio pubblico è una questione che ossessiona da anni i broadcaster pubblici europei confrontati con un contesto al contempo sempre più competitivo e sempre più articolato e frammentato. Si tratta insomma di una questione sempre più complessa imprescindibile dalla questione più generale della ridefinizione della missione del servizio pubblico radiotelevisivo nell’era crossmediale digitale per soddisfare le esigenze di informazione, educazione e cultura, ma anche di divertimento e svago di un nuovo public, ovvero di una nuova comunità sempre più articolata e complessa che - sotto le spinte della globalizzazione da un lato e delle comunità locali dall’altro – non si può solamente identificare con il modello tradizionalmente sì contrassegnato dai vecchi stati nazionali.
Da anni esistono anche in Italia modalità di misurazione della qualità radiotelevisiva intesa come creazione di valore pubblico, ovvero di valore per questa nuova complessa comunità fatta di cittadini italiani e di immigrati stranieri, di minoranze linguistiche ma anche di una miriade di potenziali utenti disseminati in tutto il mondo interessati alla lingua italiana e più in generale ai valori e ai tratti della cultura, dell’arte di vivere, di vestire, di intraprendere di coloro che sono stati definiti Italian Oriented People e che sono stati definiti con efficacia dall’ex Presidente delle Camere di Commercio Italiane all’estero come “italici”.
Vediamo come si poneva la questione della percezione della qualità nelle prime tre tappe della storia del sistema mediale italiano e come si pone oggi al momento del passaggio dall’offerta di contenuti su media separati lineari ad una quarta fase che si sta aprendo caratterizzata da quella che è stata definita come l’integrazione cross mediale dei contenuti nella quale saltano le rigidità legate spazio temporali proprie della radiodiffusione nel Novecento
La prima stagione: nell’era dei regimi di monopolio (anni Venti- fine anni Settanta) - in un ambiente oligocanale analogico su frequenze terrestri - la questione della qualità sostanzialmente non si poneva se non i termini generici di rilevazione di indici di apprezzamento degli ascoltatori tali da soddisfare anche le esigenze degli inserzionisti pubblicitari e degli sponsor dei programmi radiofonici.
A differenza della BBC e del modello di broadcaster pubblico che si andrà affermando nel dopoguerra, il caso italiano si caratterizza infatti sin dalla nascita come un modello ibrido “pubblico-privato” con imprese di diritto privato che andranno a partire dagli anni Trenta operando nell’ambito della costellazione delle cosiddette imprese a partecipazione statale.
Nei primi anni di vita dell’Unione Radiofonica Italiana il modello è quello di una radio privata d’élite che si rivolge a pochi fortunati possessori di apparecchi radiofonici che pagano un canone di abbonamento al servizio con un palinsesto dominato da programmi musicali e che trasmette un ristretto numero di bollettini informativi realizzati da un’Agenzia di stampa posta sotto la tutela del governo. Anche dopo il passaggio del nuovo Ente Italiano Audizioni Radiofoniche e il progressivo controllo di tale organismo da parte del regime fascista, l’esistenza di moderne forme di messaggi pubblicitari mutuati dal modello delle radio commerciali statunitense, fa della radio italiana un caso piuttosto originale nel panorama radiofonico europeo, a metà strada fra il modello di finanziamento pubblico britannico - che, con la nascita della nuova British Broadcasting Corporation, garantiva indipendenza e autonomia non solo dal potere politico ma anche da quello economico - e il modello commerciale adottato in regime di concorrenza sotto la tutela di un’Authority negli Stati Uniti.
Nonostante il successivo tentativo anche in Italia di ”nazionalizzazione delle masse” e l’uso propagandistico sempre più marcato della radio da parte del regime, i dirigenti dell’EIAR, seppur soggetti ad uno stringente controllo preventivo da parte del regime soprattutto quando esso viene trasferito al Ministero per la Stampa e Propaganda poi divenuto Ministero per la Cultura Popolare, beneficiano di una relativa autonomia di programmazione grazie all’esigenza di soddisfare le richieste del pubblico e quello degli inserzionisti pubblicitari e di alcuni sponsor che contribuiscono come oltre Oceano a finanziare determinati programmi quali ad esempio i concerti.
Questa felice ambivalenza si mantiene anche dopo la caduta del regime fascista con la fine dell’EIAR e la nascita di un nuovo soggetto di servizio pubblico, la Rai, nel secondo Dopoguerra. Anche in questo caso abbiamo a che fare con un soggetto di diritto privato ma titolare per convenzione della missione di servizio pubblico può operare come Giano Bifronte con una certa libertà di manovra, beneficiando peraltro della sua posizione di monopolista privo di concorrenti.
Ciò le consente, dopo il varo della televisione, di assicurare negli anni del Miracolo economico a cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta, l’unificazione linguistica del paese e l’alfabetizzazione di massa degli italiani e - dopo la Riforma del 1975 - di avviare un primo tentativo in senso regionalista di rappresentare le varie realtà territoriali del Paese. Una certa dose di paternalismo e di pedagogismo “octroyé” (come direbbero i francesi), ovvero promulgato e imposto dall’alto non solo negli anni della dittatura ma anche in quelli della ricostruzione e nei primi 15 anni della Repubblica, non impediscono ai suoi dirigenti di effettuare una completa trasformazione da medium d’élite (com’era appunto la radio almeno sino allo scoppio della seconda guerra mondiale) nel principale oggetto di desiderio delle famiglie italiane, ovvero il televisore, che andrà sempre più sostituendosi al cinematografo nel tempo libero.
La qualità dovuta dalla missione istituzionale - accordata in base ad una convenzione rinnovata con lo Stato repubblicano nel 1952 - riesce a conciliarsi sostanzialmente con la qualità percepita e con il gradimento del pubblico (privo di alternative se non quella appunto di andarsene al cinematografo) rispondendo alle esigenze di un contingentato numero di inserzionisti pubblicitario e sponsor.
La seconda stagione con la fine del monopolio pubblico - dapprima in ambito locale e successivamente anche in ambito nazionale attraverso la cosiddetta interconnessione funzionale e la nascita dei grandi network commerciali finanziati esclusivamente da moderni spot pubblicitari e sponsorizzazioni che allargano sensibilmente il numero delle imprese inserzioniste, apre sostanzialmente il primo solco fra qualità dovuta e qualità percepita, provocando un sostanziale processo di omologazione dell’offerta del servizio pubblico con quella proposta dai network commerciali.
Il primo quindicennio del sistema misto dove coesistono soggetti pubblici e privati (dalla prima parte degli anni Ottanta sino alla prima metà degli anni Novanta) costituisce l’apoteosi della televisione e il primato dell’offerta generalista con programmi sempre più segnati dalla cosiddetta “Dittatura dell’Auditel”, ovvero dalla disperata ricerca dell’audience per soddisfare le esigenze degli inserzionisti in una logica di flusso continuo di immagini che rende il telespettatore sempre più passivo anche perché privo di offerte alternative come quelle che invece iniziano ad offrire in altri Paesi soprattutto nel Nord Europa alcune piattaforme distributive alternative sui circuiti via cavo, o in ricezione diretta via satellite.
Dalla felice anomalia italiana di Giano Bifronte, in questa seconda stagione il servizio pubblico diventa un Ircocervo metà servizio-metà impresa che assolve sempre meno la propria missione pubblica senza beneficiare della grande espansione delle risorse pubblicitarie. Perdendo le proprie prerogative di monopolista e assecondando al contempo sempre di più quelle degli inserzionisti a scapito delle missioni di servizio pubblico, si tende in qualche modo in un primo tempo a mettere in sordina la questione della qualità televisiva dei programmi trasmessi e del recupero della propria identità originaria: solo a partire dagli anni Novanta ci si renderà conto che essi rappresentano il fattore critico di successo per continuare a competere e a contrastare la concorrenza delle nuove emittenti commerciali che in virtù di una nuova legge di sistema beneficiano ormai della diretta e possono competere ad armi pari con l’impresa concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo.
La terza stagione (dalla seconda metà anni Novanta alla prima metà di questo decennio) inaugura una nuova fase dove con l’emergere delle nuove piattaforme digitali, inizia a declinare il primato dell’offerta radiotelevisiva di tipo generalista, ovvero rivolta ad un pubblico indifferenziato e dove una massa ancora piccola ma crescente di utenti inizia a dirottare i propri consumi al di fuori delle offerte proposte dai tradizionali strumenti di comunicazione di massa. Ci si rende conto definitivamente degli effetti devastanti dell’omologazione dell’offerta nella stagione precedente e della necessità di vincere la competizione sugli ascolti attraverso la qualità del servizio offerto che inizia ad essere dispensato anche sotto forma di nuovi canali tematici su queste nuove piattaforme.
Lo sviluppo delle prime offerte televisive multicanali digitali a pacchetto (i cosiddetti bouquet) coincide con il momento in cui va prepotentemente affermandosi uno strumento capillare di comunicazione bidirezionale interattiva come quello costituito dai nuovi siti disponibili attraverso il World Wide Web la nuova rete di interconnessione a ragnatela fra le diverse reti telematiche esistenti, nota come Internet. Le nuove offerte multicanali digitali e la crescita tumultuosa di Internet a cavallo dei due millenni tornano a porre al centro la questione della missione di coesione sociale a beneficio di una nuova forma di collettività intesa in senso locale-globale, ovvero “glocale”.
L’emergere di una sorta di Babele elettronica ovvero di caotica convivenza di un numero sempre più diversificato di offerte e di servizi, lineari e non, monodirezionali e interattivi, destinati ad essere fruiti tu terminali fissi e/o su terminali mobili, rende sempre meno efficace e comunque imperfetto l’Auditel per la rilevazione dei consumi mediatici degli italiani. Anche in Italia, nonostante l’assenza di sviluppo delle reti via cavo, gli utenti e i cittadini sono ormai sottoposti a diete sempre più raffinate e con i segmenti attivi della popolazione alle prese con una sempre più problematica gestione del fattore tempo, ovvero del tempo a disposizione per lo svago e per i consumi culturali a fronte di una crescente popolazione anziana non più attiva ma destinata comunque, pur non possedendo elevati tassi di alfabetizzazione ai nuovi linguaggi multimediali, non più appagata in toto dai tradizionali canali generalisti che era abituata a consultare attraverso un telecomando.
La crescita del numero di abbonati alle piattaforme a pagamento - e più in generale il ruolo di traino rappresentato dalle pay tv e più in generale dalle offerte premium di eventi sportivi e di lungometraggi cinematografici che diventano le locomotive di sviluppo delle offerte multicanali digitali - sanciscono la fine del modello del broadcaster verticalmente integrato e degli editori radiotelevisivi tradizionali incentrati sul primato del palinsesto e degli indici di ascolto, a favore di un nuovo soggetto, l’operatore multicanale a pagamento, titolare a monte dei diritti in molti casi in regime di esclusiva elle nuove offerte e a valle della gestione ad accesso condizionato degli abbonati attraverso un sistema di cifratura dei segnali che vengono decodificati da un apposito ricevitore collegato al televisore.
Nel passaggio dalla televisione oligocanale analogica alle nuove offerte televisive multicanali, l’utente finale, il nuovo telespettatore di fine millennio torna ad essere centrale come ai tempi del monopolio del servizio pubblico, ma in quanto consumatore di servizi a pagamento: dal primato degli ascolti del vecchio broadcaster passiamo alla centralità tendenziale da parte del gestore della piattaforma preoccupato della compravendita dei diritti e della gestione attraverso un decoder degli abbonamenti.
Contemporaneamente non assistiamo - come avvenuto in occasione del passaggio al sistema misto - ad una rapida moltiplicazione delle risorse ma ad un loro ulteriore assottigliamento fra un numero più articolato di soggetti in campo e di offerte. I nuovi canali digitali anziché puntare alla qualità, privi di adeguate risorse all’eccezione delle offerte premium, si limitano ad affettare una televisione generalista sempre più priva di qualità.
In questo quadro editoriale che diventa sempre più affollato e competitivo il servizio pubblico appare come un incumbent, una vecchia signora che perde smalto, rischia di non trovarsi più ai primi posti nella numerazione e, anziché governare la difficile transizione verso la televisione “tutta digitale” ed assumere un ruolo di apripista tecnologico, è fortemente tentato da volerne al contrario rallentare lo sviluppo, forte delle vecchie rendite di posizione di cui sino ad allora aveva potuto ancora disporre nonostante l’insediamento di un’Autorità Antitrust e di nuove imperative richieste da parte dell’Unione Europea di separazione contabile fra attività editoriali “mission oriented” finanziate dal canone e iniziative finanziate da altre fonti commerciali e in particolare dalla pubblicità e dalle sponsorizzazioni.
Non si percepiscono ancora in questa terza fase le grandi potenzialità rappresentate dalla materia prima di cui il servizio pubblico dispone, ovvero il ricco archivio accumulato nel passato né l’importanza di due fattori critici di successo quali la diversità delle offerte e dei generi e la qualità dei propri programmi rispetto a quelle dei grandi network commerciali e dei “poveri” canali tematici. Dal vecchio slogan “cercasi audience disperatamente” che lo costringeva a rincorrere il competitor commerciale sul segmento generalista, si acquisisce la consapevolezza che il nuovo servizio pubblico crossmediale può continuare ad avere una propria ragione di esistenza solo se riuscirà a riconcentrarsi nella ricerca della qualità e nel rigoroso assolvimento della sua missione di garante del pluralismo e della coesione sociale .
La quarta fase. Con l’avvento - a fianco delle piattaforme satellitari e di quella su reti telefoniche - della nuova offerta televisiva digitale terrestre destinata ad interessare tutte le famiglie in seguito al progressivo spegnimento delle trasmissioni in tecnologica analogica, a partire dal 2005 siamo entrati in una quarta fase dove assisteremo non solo al passaggio ad un ambiente multipiattaforma “tutto digitale”, ma anche ad una più compiuta ed irreversibile convergenza tecnologica fra reti di radiodiffusione circolare e reti di telecomunicazione.
Dall’attuale persistente Babele elettronica dove coesistono media separati su più piattaforme assisteremo alla nascita di una nuova Grande Tela (quella che taluni hanno chiamato Internet 2.0 altri addirittura Internet 3.0) in cui confluiranno le reti radiofoniche e televisive classiche senza ormai più limiti di irradiazione spaziali né temporali. In questa seconda (e probabilmente accelerata) transizione verso l’integrazione crosssmediale e la distribuzione intelligente dei contenuti e dei saperi in rete, occorre predisporre un oculato dosaggio dove coesistano media lineari e offerte di “comunicazione conservata in rete” e a fronte della moltiplicazione dei terminali e delle modalità di fruizione fissa (centralina intelligente) e mobile.
Come già avvenuto per Internet, diventa sempre più cruciale la conoscenza dei propri clienti ed utenti e il ruolo rappresentato dal motore di ricerca nella costruzione di diete mediatiche a misura dei singoli utenti. L’effetto “coda lunga” costituito dai nuovi mercati di nicchia e dalle sempre più raffinate offerte proposte con nuovi standard ad elevatissima qualità (a cominciare dall’alta definizione su schermi piatti) può incrementare il ciclo di vita dei prodotti e programmi a utilità ripetuta a scapito delle offerte “usa e getta” che hanno così largamente interessato gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.
Contemporaneamente la qualità di tale offerta può e deve coniugarsi con l’imperativo di lottare contro la frammentazione del corpo sociale assicurando una dieta mediatica diversificata e di qualità anche ai ceti monomediali più poveri e meno alfabetizzati. Solo così il servizio pubblico crossmediale potrà assicurare una nuova coesione della propria comunità di riferimento si trovi essa in ambito locale e/o nazionale, o in ambito europeo e globale
Conclusioni. L’Italia celebrerà nel 2011 il Centocinquantenario dalla nascita del proprio Stato unitario. Non sappiamo ancora se il 2011 coinciderà con la messa a punto di un nuovo assetto statuale in senso federalista basato su principi di sussidiarietà e di cooperazione in ambito inter- e macroregionale nell’ambito di un rilancio del processo di costruzione di un’Europa dotata di istituzioni politiche più forti ed influenti in un mondo sempre più globalizzato. Ma siamo convinti che il 2011 può rappresentare una sorta di terminus a quo di una nuova idea, di un nuovo concetto di servizio pubblico crossmediale che operi in senso “intelligente” all’interno di un inedito Welfare, per avviare, dopo la grande crisi finanziaria che ci sta colpendo, la ricostruzione dell’economia, della cultura e dei saperi nella società in rete. Quattro anni dopo, nel 2015 Milano ospiterà l’Expo Universale dedicata al tema dello sviluppo sostenibile. Questo grande evento può a sua volta rappresentare il terminus ad quem della fase sperimentale di questo nuovo servizio crossmediale. Ciò consentirebbe di prepararsi in modo appropriato alla scadenza prevista nel 2016 con il rinnovo della Convenzione fra la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e il nuovo servizio pubblico crossmediale incaricato di assolvere la propria missione di coesione sociale nella network society.
Come Giovanni Gentile realizzò negli anni Venti e Trenta con l’Enciclopedia Italiana un’opera editoriale di eccellenza, il servizio pubblico crossmediale può fare della diversità culturale e dell’eccellenza il proprio segno distintivo in questo secolo, intercettando e coordinando tutti i fornitori di contenuti pubblici e di pubblica utilità nella costruzione di un grande edificio, di un moderno tempio, al contempo garante e custode dei saperi condivisi in rete. Senza dimenticare il tradizionale presidio generalista e più in generale una ricca ed articolata presenza nell’universo radiotelevisivo lineare, il nuovo servizio pubblico crossmediale potrebbe predisporre un Museo Virtuale dell’italicità, una Grande enciclopedia della lingua della cultura e delle punte di eccellenza del sapere e dell’arte. Una sorta di caleidoscopio, un luogo, uno specchio nel quale la comunità possa leggersi e rispecchiarsi, un luogo in cui sentirsi italiani fra gli italiani, ma anche europei fra gli europei, una garanzia di servizio universale accessibile a tutti i cittadini ma anche un luogo finalizzato ad un’ordinata convivenza nella nuova Grande Tela Multimediale, un luogo in cui tutti e ciascuno si senta rappresentato, in cui nessuno abbia il timore che c’è qualcuno che provvede a deformare lo specchio o a truccare le carte.
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